III
I MARXISTI-LENINISTI
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1. Le verità irrefutabili
Le tesi del XX congresso rappresentano il punto d'attacco della polemica cinese contro il Pcus. Il dissenso, solo parzialmente mediato nella conferenza di Mosca del novembre 1960, si tramuterà, tre anni dopo, in un'insanabile frattura con lo scambio di lettere fra i due comitati centrali. E’ in discussione la tattica e la strategia del movimento operaio internazionale: fra i due grandi Stati socialisti si è aperta una profonda divaricazione su come combattere l'imperialismo e portare avanti la rivoluzione nel mondo. Uno scontro che impone scelte drastiche. Progressivamente la Cina di Mao diventerà il punto di unificazione ideale della critica al revisionismo, ma l'approccio non sarà lineare, occorrerà rimuovere l'ombra cupa dello stalinismo e di questo sembrerà far giustizia la «Grande rivoluzione culturale». Contro il «tradimento revisionista» la Cina diventa la bandiera della rivoluzione socialista, sotto la quale si ritrovano gli orfani della dittatura del proletariato e la nuova generazione in cerca di miti capaci di dare concretezza ali'utopia rivoluzionaria. In una prima fase attorno alle posizioni cinesi si forma un' area di confine tra vecchio e nuovo stalinismo, riconducibile ai gruppi marxisti-leninisti. Ma questa parzialissima versione ideologico-organizzativa non rappresenta la totalità della forza di attrazione esercitata dall'esperienza cinese e dal pensiero di Mao. Se gli spontaneisti si incontreranno con le tesi movimentiste della rivoluzione culturale, gli operaisti in cerca del partito vedranno nei marxisti-leninisti i costruttori dell'organizzazione alternativa. Questi ultimi, a loro volta, rifiutato il dogmatismo, cercheranno nei testi dell' operaismo l'analisi e la teoria del capitalismo. L' esplosione della rivoluzione culturale rompe ogni presunta linearità teorica e il maoismo sembra presentarsi come un magico repertorio di principi e di pratiche-teoriche capaci di per sé di dar vita a un potenziale processo di unificazione antirevisionista. Nell' aprile del 1960 con il documento Viva il leninismo , il Partito comunista cinese, anche se in modo indiretto, inizia la sua offensiva contro il Partito comunista dell'Unione sovietica. L'articolo, scritto per commemorare la nascita di Lenin, è l'occasione per riconfermare i «principi» del marxismo-leninismo. La chiave interpretativa della storia rivoluzionaria dalla Comune di Parigi in poi, sostengono i cinesi, è il principio affermato da Marx e attuato da Lenin secondo cui la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della «macchina dello Stato» così come si è sviluppata nella società capitalistica. Il proletariato deve usare metodi rivoluzionari per la conquista dello Stato, per abbattere le sue strutture e per affermare la dittatura del proletariato. Questa è la discriminante nei confronti dei revisionisti e degli opportunisti. Dall'analisi di Marx sull'insuccesso della Comune derivano le premesse della lotta teorica condotta da Lenin nell’ edificazione del primo stato socialista, contro le deviazioni e le «false in-terpretazioni». Proprio nelle condizioni difficili di costruzione dell'Urss contro i tentativi di strangolamento e di isolamento nacque la teoria leninista dell'imperialismo: questa è il centro della polemica dei cinesi nei confronti dei risultati del XX congresso. Nel documento l'ancoraggio a Lenin è operato in modo manicheo, secondo un rituale che sarà costante nella fraseologia e nel comportamento politico delle formazioni marxiste-leniniste: le «verità irrefutabili» si applicano, non si discutono. Il dottrinarismo e la guerra delle citazioni sostituiranno l'analisi e la riflessione storica. Basta prolungare gli schemi alla situazione politica interna e alla formazione del centro-sinistra per costruire un sistema di assiomi fatto di accuse di deviazionismo rispetto ai «principi» della rivoluzione. Il principio di autorità semplifica la realtà, offre una legittimazione a priori nel dibattito politico e permette di non curarsi della ricerca del consenso: quando si è in possesso delle «verità» si può anche rimanere «pura» minoranza. Le «verità irrefutabili» sono i principi della rivoluzione socialista e di conseguenza, l'arma teorica fondamentale del partito della classe operaia: «Lenin ha giudicato di primaria importanza che il proletariato costituisca il proprio partito politico genuinamente rivoluzionario, che rompa completamente con l'opportunismo — cioè un partito comunista — perché la rivoluzione del proletariato sia realizzata e consolidata. Questo partito politico è armato della teoria del materialismo storico marxista. Il suo programma si propone di organizzare il proletariato e tutto il popolo lavoratore oppresso per la lotta di classe, di costruire un governo del proletariato e di passare attraverso il socialismo alla meta finale del comunismo» . Da questo assunto muove la pervicace ostinazione dei gruppi marxisti-leninisti nella formazione del partito, quale strumento indispensabile per una teoria e una pratica rivoluzionaria. Ne deriva quella concezione del partito «genuinamente rivoluzionario» che spiega l'esasperata lotta interna fra linee divergenti, il progressivo consumarsi in scontri intestini, l'alternanza di scissioni e nuove fondazioni. Il tutto con un risultato assai modesto rispetto alla reale incidenza di massa. Ma se neostalinismo e dogmatismo suscitano molte diffidenze e anche fastidio intellettuale, l'ossessione organizzativa influenzerà largamente i gruppi. Nella difficile scelta verso il partito che assillerà l'estremismo, l'esperienza dei marxisti-leninisti diventerà emblematica, accompagnata dal richiamo a memorie resistenziali (il gruppo si vanterà di avere nelle proprie file numerosi ex partigiani) e dal valore che assume il riferimento al pensiero di Mao. Le continue fluttuazioni di militanti produrranno non poche commistioni ideologiche, e il particolare incontro col troztkismo innesterà una forte suggestione movimentista e policentrica rispetto al nucleo originario. Delle cosiddette «verità irrefutabili» fanno parte i principali argomenti sostenuti contro il Partito comunista italiano e le scelte operate dalI'VIII congresso; una critica di «revisionismo» che sarà rinvigorita dai due opuscoli cinesi Le divergenze fra noi e il compagno Togliatti. In aperto contrasto con le novità strategiche del XX congresso del Pcus, i cinesi confermano come principale verità rivoluzionaria la concezione leninista dell'imperialismo e del suo ruolo di aggressore: «Lenin mise in rilievo come gli imperialisti, gli oligarchi del capitale finanziario in un piccolo numero di potenze capitalistiche, non solo sfruttano le masse popolari dei loro stessi paesi, ma opprimono e saccheggiano il mondo intero, rendendo la maggior parte dei paesi loro colonie e dipendenze. La guerra mondiale è scaturita dall'insaziabile avidità degli imperialisti di contendersi mercati mondiali, le fonti di materie prime e le zone di investimento e di spartirsi di nuovo il mondo. Fin-tanto che l'imperialismo capitalistico esisterà nel mondo, le origini e le possibilità di guerra continueranno ad esistere. Il proletariato dovrà condurre le masse popolari alla comprensione dell'origine della guerra ed alla lotta per la pace e contro l'imperialismo» . In Viva il leninismo, il Partito comunista cinese in polemica con l'esperienza jugoslava — ma puntando molto oltre, come risulterà evidente nella conferenza degli 81 Partiti comunisti operai di Mosca — pur non contestando tatticamente l'obiettivo della coesistenza pacifica, ribadisce il carattere ineluttabile della guerra con l'imperialismo. In questo modo si sottovalutano le novità politiche intervenute sul piano internazionale negli anni '58-'59: il fallimento della guerra fredda, la crisi della politica di Foster Dulles, il logoramento della stessa Alleanza atlantica, il valore dell' incontro di Camp David (primo tentativo diplomatico fra le grandi potenze), così come le nuove condizioni che si aprono con l'elezione di Kennedy a presidente degli Stati Uniti . Né si considerano, nelle posizioni cinesi, le pericolose caratteristiche di un nuovo conflitto, i rischi e le catastrofiche conseguenze di un eventuale scontro mondiale che avrebbe necessariamente assunto la forma della guerra nucleare con imprevedibili ripercussioni sul destino di tutta l'umanità: «... se gli imperialisti si rifiutano ad un accordo sulla interdizione delle armi atomiche e nucleari, ed osano sfidare la volontà di tutta l'umanità, scatenando una guerra condotta con le armi atomiche e nucleari, il risultato non potrà che essere la distruzione rapidissima del mondo [...]. Sulle rovine dell'imperialismo defunto i popoli creeranno, con estrema rapidità, una civiltà mille volte superiore al sistema capitalistico e per se stessi un avvenire veramente radioso» . In questa logica la coesistenza pacifica diventa un semplice mezzo per smascherare la natura aggressiva dell'imperialismo: una tattica per riuscire a sconfiggerlo. Riaffermata la proposizione leninista dell'«epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria», per i marxisti-leninisti, non e' è alcun dubbio, è «l'epoca della vittoria del socialismo e del comunismo». Chi si allontana da questa formulazione in realtà si allontana dal considerare il leninismo come continuazione del marxismo rivoluzionario, dal considerarlo teoria e politica della rivoluzione e della dittatura del proletariato . Al contrario, era proprio dal riconoscimento del «sistema socialista mondiale» e dall'ampiezza «delle forze che si battono contro l'imperialismo, per la trasformazione socialista della società» che nasceva la svolta del XX congresso del Pcus e il significato delle sue indicazioni . Dopo la conferenza di Mosca, al di là della mediazione diplomatica, rimangono i contrasti. Non si è raggiunta un'unità sul «giudizio da dare sull'epoca presente», ormai due linee si confrontano nel movimento operaio internazionale. Le differenze sono sostanziali, esse riguardano la natura del socialismo e la sua edificazione, l'insieme del campo socialista e il suo rapporto con l'imperialismo, la natura di un possibile conflitto e il valore che si assegna alla coesistenza pacifica. Fra i due grandi stati socialisti ormai si è aperto uno scontro per la conquista della leadership nel mondo socialista. «Coesistenza pacifica» e «via italiana al socialismo» sembrano diventare i due cardini della conversione revisionista, la strada per abbandonare la teoria della rivoluzione acconciandosi alla tregua e al parlamentarismo democratico-borghese. È proprio partendo dalla convinzione intensamente vissuta della complessità teorica e strategica contenuta nella svolta del '56 che Togliatti avverte la necessità di approfondire il dibattito fra i partiti comunisti per evitare una lacerante rottura. Un atteggiamento politico e una volontà riconfermati nell'ultimo scritto del leader comunista, II memoriale di Yalta; un appello a proseguire la riflessione all'interno del movimento operaio, esigenza imposta dagli eccezionali mutamenti politici e dal «nuovo» che avanza nel mondo intero. Il documento Viva il leninismo si chiede retoricamente: se è vero, come approvato nella risoluzione della conferenza di Mosca del '57 che «l'influenza borghese è una fonte interna di revisionismo mentre la capitolazione di fronte all'imperialismo ne è la fonte esterna»; se è vero che «il revisionismo moderno cerca di annacquare la grande dottrina del marxismo-leninismo, dichiara che essa è superata, asserisce che ha perduto la sua importanza per il progresso sociale»; se è vero che «i revisionisti tentano di incidere sullo spirito rivoluzionario del marxismo, di minare la fede nel socialismo tra la classe operaia ed il popolo lavoratore in genere». Gli insegnamenti del marxismo-leninismo sono dunque superati? Le «verità irrefutabili» sono principi ancora validi?
«Hong-qui» (Bandiera rossa), Pechino, 19 aprile, 1960.
Viva il leninismo, in «Dossier dei comunisti cinesi», a cura di R. Gabriele, N. Gallerano e G. Savelli, prefazione di L. Libertini, Edizioni Avanti!, 1963, p. 26.
Per alcuni aspetti della politica estera cinese in quegli anni confronta «L'ipotesi del tripolarismo»,. Dedalo libri, 1975.
Viva il leninismo, in «Dossier dei comunisti cinesi», cit., p. 37.
Si veda il dibattito alla Conferenza di Mosca del 1960.
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2. La rottura Cina-Urss
Inseriti nelle vicende di quegli anni sono interrogativi inquietanti, che entrano nel vivo del dibattito apertosi dopo le rivelazioni su Stalin e corrispondono alla crisi ideale che investe la prospettiva stessa del socialismo. L'«indimenticabile» '56 aveva lasciato segni indelebili, il destino del socialismo sembrava imprigionato tra l'autoritarismo staliniano e il riformismo socialdemocratico. Mentre i carri armati sovietici invadevano l'Ungheria «l'Unità», allora diretta da Pietro Ingrao, titolava «le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all'anarchia e al terrore bianco». La «svolta» non è ancora sufficiente a rendere autonomo il giudizio del Pci sull'Urss. Promotori Natalino Sapegno e Carlo Muscetta, oltre cento intellettuali firmano un manifesto critico verso il partito, fra i firmatari Alberto Asor Rosa, Luciano Cafagna, Carlo Cicerchia, Lucio Colletti, RenzoDe Felice, Alberto Samonà, Enzo Siciliano, Mario Tronti. Seguono i molti abbandoni. Al centro dei contrasti sull'epoca presente sono i punti teorici cruciali del rinnovamento-svolta dell'VIII congresso, nodi-concetto che si prolungheranno nella disputa e nel conflitto fra l'estremismo e i partiti della sinistra. Si tratta di temi come: la violenza, il nesso democrazia-socialismo, la lotta di classe, il parlamentarismo, la concezione del partito, il giudizio sulle alleanze; è sotto inchiesta e sottoposto a verifica critica tutto il complesso teorico che ha guidato l'esperienza del movimento operaio italiano. La spiegazione non è solo politico-ideologica ma si accompagna alle mutazioni sociali, alla rottura del tradizionale rapporto politica-cultura, ai processi di politicizzazione della nuova generazione. L'appassionato dibattito interno ai partiti è solo un aspetto della più generale tensione critica che è la premessa dell'avanzare di una nuova coscienza politica e concorrerà a un consistente spostamento negli orientamenti ideali di vasti settori sociali. Si può dire, forzando i concetti, che contemporaneamente entrano in crisi gli antichi referenti: la caduta di credibilità dell'esperienza sovietica incrina l'identità e l'unità nel movimento operaio; salta il tradizionalismo cattolico, che sente il bisogno di una nuova etica della militanza sociale, mentre settori di orientamento liberal-moderato avvertono una forte spinta al cambiamento. Nella ricerca di un nuovo sistema di valori lo schematismo deduttivo cinese, finisce col prevalere sulla tipicità dell' approccio politico esso costituisce un telaio su cui situare le varie citazioni-repertorio, mentre il «maoismo» diventa un complesso di principi per la spiegazione della realtà. Per questa via entra in crisi la politica come scienza per diventare esclusivamente scelta morale e ideologica e i «principi» la gabbia interpretativa delle vicende politico-sociali. Fideismo cattolico e dogmatismo staliniano entrano in risonanza ognuno trascinandosi spezzoni della propria specificità, accomunandosi in una sorta di teleologia della rivoluzione. Mentre si fa un gran parlare di centro-sinistra e del suo portato riformatore, ha vita il tentativo reazionario del governo Tambroni; l'anno successivo, il presidente della «distensione», Kennedy, finanzia la fallita spedizione a Cuba del '61 e prepara gli «esperti» per il Vietnam. Sono queste le risposte alla «coesistenza pacifica», o invece non è valida la teoria cinese dell' imperialismo come «tigre di carta»? All'aggressività dell'imperialismo non si può accordare nessuna tregua, non si può cadere nella trappola diplomatica della «coesistenza pacifica». Nel Pci, «filocinese» diventa sinonimo di contestazione e di dissenso. I «filocinesi» appaiono già nelle giornate del luglio '60, si ritrovano nel corso delle manifestazioni per la crisi di Cuba, saranno insieme ai «teppisti» di piazza Statuto a Torino. Paradossalmente convergono sulla Cina le speranze di una generazione e insieme stalinismo e antistalinismo. Per molti rappresenta la «Rivoluzione», per i giovani è una conferma della sua attualità, per gli stalinisti un prolungamento della teoria della dittatura del proletariato, per gli antistalinisti la prova che sono possibili altre strade nella costruzione del socialismo. Il metodo diventa tautologico: se l'obiettivo è un obiettivo rivoluzionario, quali sono i canoni, gli archetipi di un comportamento rivoluzionario? La risposta è affidata alle verità irrefutabili: alle quali si può attingere come a un patrimonio indiscutibile. Nel documento «Viva il Leninismo» sono contenuti i tre argomenti principali dei dirigenti cinesi: la necessità della violenza rivoluzionaria, la negazione della coesistenza pacifica, il rifiuto delle «vie nazionali». I cinesi nella loro polemica contro la svolta del XX congresso negano la necessità di un intreccio democrazia-socialismo; in realtà si tratta di una forzatura polemica, e tuttavia l'esasperazione critica finisce con l'intaccare obiettivamente la sostanza della linea portata avanti dal Partito comunista italiano. Allo stato democratico-repubblicano si contrappone un possibile sbocco rivoluzionario; una tesi sviluppata dal Del Carria nel suo Proletari senza rivoluzione, che si ritrova in alcuni aspetti dell'elaborazione dello stesso Secchia e più in generale in una sorta di rilettura al negativo della storia del Pci come occasione rivoluzionaria mancata. Rifiutato il nesso democrazia-socialismo, lo Stato diventa, senza alcuna articolazione di giudizio, o quello della borghesia, o quello del proletariato. In questo schema sia lo «Stato borghese» che 1'«imperialismo» sono di per sé suscitatori di violenza. Una violenza, per dirla con la gruppettistica a cui si deve rispondere con un'altra violenza: quella rivoluzionaria; uno Stato su cui non si può intervenire, ma che deve essere radicalmente distrutto. Nella definizione della violenza, per i cinesi (come sarà per i filocinesi nostrani) non ci sono dubbi e discussioni, basta ricondursi alle considerazioni svolte da Lenin in Stato e rivoluzione: «la formazione e l'esistenza dello Stato è in se stessa una forma di violenza». E ancora Lenin che traccia una distinzione fra i due tipi di stato: «Lo stato della dittatura borghese e lo stato della dittatura del proletariato, è tra due tipi di violenza di differente natura, la violenza controrivoluzionaria e la violenza rivoluzionaria. Lo stato in cui le classi sfruttatrici sono al potere è una violenza controrivoluzionaria, una forza speciale che rappresenta le classi sfruttatrici nell'oppressione delle classi sfruttate» . Estrapolate dal loro contesto originario, queste affermazioni sono la premessa di un antistituzionalismo movimentistico in cui, accanto alle tradizionali teorie della rottura dello stato, confluiranno il terzo-mondismo alla Fanon e le tesi della «violenza repressiva delle istituzioni» del sociologismo tedesco-americano. La lotta eroica del popolo vietnamita sarà non solo l'occasione delle grandi mobilitazioni, ma il terreno della divisione politica, degli scontri col servizio d'ordine del Pci, origine di dissensi fra partito e Fgci. All'insegna dello slogan «Vietnam vince perché spara» dalle manifestazioni pacifiste si passerà agli assalti ali' ambasciata americana. Da Cuba al Vietnam, nella guerriglia del Che o nella lotta di popolo del generale Giap si vede confermata la citazione maoista: «il potere è sulla canna del fucile». Nello scontro Cina-Urss si apre un'insanabile divaricazione tra due linee: la lotta armata come qualità propria del processo rivoluzionario si oppone alla ricerca dell' accordo, alla coesistenza fra due sistemi considerati inconciliabili. Per i cinesi, solo i «revisionisti» possono considerare superata l'enunciazione leninista della guerra come continuazione della politica; Lenin chiarì nella lotta contro gli «opportunisti» che «la guerra è l'inevitabile sbocco dei sistemi di sfruttamento e l'origine delle guerre è il sistema impcrialistico». Senza la fine del sistema imperialistico e fino a quando le classi sfruttatrici non cesseranno di esistere vi saranno sempre guerre anche se può cambiare la loro fisionomia; «Vi possono essere guerre tra gli imperialisti per la ripartizione del mondo, o guerre di aggressione e contro-aggressione tra gli imperialisti e le nazioni oppresse; o guerre civili di rivoluzione e controrivoluzioni tra le classi sfruttate e quelle sfruttatrici nei paesi capitalistici o, naturalmente, guerre nelle quali gli imperialisti attaccano i paesi socialisti e i paesi socialisti sono obbligati a difendersi» . Il marxismo-leninismo non può cadere nel «pantano» del pacifismo borghese, deve valutare le varie forme che può assumere la «guerra» e trame le giuste conseguenze. Lenin ha insegnato che gli imperialisti — proseguono ancora i cinesi — hanno due tattiche: la guerra e la pace; quindi anche il proletariato mondiale deve usare due tattiche per fronteggiare l'imperialismo: «Smascherare in pieno l'inganno della pace imperialistica e lottare energicamente per una pace genuina nel mondo e la tattica di prepararsi per una guerra giusta per por fine ad una guerra ingiusta quando e se gli imperialisti la scatenassero» . La critica ai caratteri dell' epoca presente implica una decisa contestazione di un altro punto cardine delle novità strategiche del XX congresso: il riconoscimento delle «vie nazionali». E evidente, dunque, che si colpisce alla radice quanto di autonomo sta maturando in questa direzione nel Pci; in sostanza il valore dell' VIII congresso che diventerà, nella critica al «revisionismo», il punto di allentamento del Pci dalla prospettiva rivoluzionaria e dalla tradizione marxista-leninista. Quella del Pci, non è una difesa d'ufficio ma la profonda convinzione della portata innovatrice sia del XX congresso, sia della destalinizzazione, a cui si unisce la volontà di cimentarsi rinnovandosi, con l'originalità della situazione italiana. Tuttavia non mancheranno prudenze e timidezze nell'autonomia dalla politica sovietica e anche il giudizio sulla Cina, al di là delle intenzioni, rimarrà troppo prigioniero di una logica di schieramento a scapito della chiarezza e di una piena conoscenza del fenomeno. Se con la svolta sovietica era entrata in crisi ogni nozione di «stato guida» e di «modello» valido per tutte le situazioni, i cinesi, rompendo ogni subalternità all'Urss, ripropongono l'esigenza del «modello rivoluzionario» candidandosi a una loro leadership nei confronti del movimento operaio, dei movimenti di liberazione del Terzo mondo e delle situazioni più arretrate. Ne consegue la forza del mito, il richiamo attrattivo esercitato verso la gruppettistica marxista-leninista. Nella conferenza degli 81 partiti comunisti del novembre 1960 la mediazione si presenta in termini difficili. Nel suo intervento alla conferenza, Teng Siao-Ping chiede di sopprimere, nel testo della dichiarazione conclusiva, ogni riferimento al valore positivo del XX e del XXI congresso del Pcus. Per il Partito comunista italiano spetta a Luigi Longo opporsi a questa volontà: «I compagni cinesi propongono di sopprimere questo passaggio. La delegazione italiana non può assolutamente accettare simile proposta. Privare la dichiarazione di un esplicito riconoscimento dell' importanza internazionale delle decisioni del XX e del XXI congresso del Pcus, sarebbe venir meno alla verità storica e sminuire il valore delle posizioni di principio fissate in quelle occasioni. Tutta la linea politica del nostro partito riconosce la validità di quelle posizioni di principio» . Nel suo intervento Longo definisce «ingiusta e calunniosa», l'accusa della delegazione cinese al comitato centrale dell'Urss: essersi allontanato «nel modo più manifesto, dalla giusta via del maxismo-leninismo e dalla dichiarazione di Mosca». Il dibattito si chiuderà con una mediazione diplomatica. «La lettera della delegazione del partito comunista italiano, al compagno N.S. Krusciov ed alla delegazione del Pcus alla conferenza degli 81 partiti comunisti e operai» esprime l'opinione e le preoccupazioni dei delegati italiani sui lavori della conferenza e sul suo documento conclusivo: «Però a nostro avviso, su alcuni punti esso costituisce un passo indietro in rapporto alla precisione e alla chiarezza della dichiarazione della conferenza di Mosca del 1957 e al progetto da voi presentato alla riunione di settembre. Esso, senza dubbio, risente delle difficoltà incontrate per arrivare a formulazioni accettabili da tutti. Comprendiamo che forse questo era inevitabile, data la situazione creatasi, però non possiamo nascondervi che in particolare il nostro partito si troverebbe in gravi difficoltà nello sviluppo di tutta la sua azione se almeno ad alcuni dei problemi trattati nella dichiarazione non si pervenisse a dare una giusta soluzione» . Sono due le questioni che vengono sottolineate: la necessità di un esplicito quanto netto riferimento al significato e al valore del XX congresso; la definizione in termini meno aspri dei rapporti col «revisionismo iugoslavo». È evidente la ragione di questa sottolineatura: il Pci è impegnato in un grande lavoro di rinnovamento organizzativo e teorico e uno dei presupposti fondamentali sono state proprio le conclusioni del XX congresso del Pcus che hanno consentito di liberare reticenze, incertezze e vecchie scorie. Anche se la polemica nei confronti delle posizioni cinesi e del Partito del lavoro d'Albania è dura e serrata, l'atteggiamento del partito comunista e in particolare dello stesso Togliatti cerca, di evitare ogni rottura e di ricondurre la discussione nell'ambito di un chiarimento più generale del movimento operaio. Però questa volontà di rifuggire dallo stereotipo del dogmatismo non fu prontamente e coerentemente sviluppata e l'acuirsi rapido del contrasto Cina-Urss portò il Pci a schierarsi senza compiere prima una rigorosa e puntuale interpretazione di quanto stava accadendo in Cina. Sullo stesso pensiero maoista (gli Editori Riuniti per primi avevano pubblicato l'opera completa di Mao Tse-tung) e sulla rivoluzione culturale non fu speso molto in analisi teorica. L'assenza di un'adeguata riflessione sulle contraddizioni interne al socialismo e al suo sviluppo lascerà uno spazio scoperto e disponibile ad essere colmato da ambigue interpretazioni. Le stesse conclusioni poco limpide della conferenza di Mosca non risolsero i problemi aperti fra i due grandi partiti comunisti. Le argomentazioni del documento Viva il leninismo, ribadite negli interventi dei rappresentanti del partito comunista cinese alla conferenza, nei saluti ai vari congressi dei partiti comunisti , sono riprese nei loro materiali di propaganda. Inizia un'ampia opera di denigrazione delle posizioni del Partito comunista dell'Unione sovietica. In Italia, i primi gruppi che si ispirano alle posizioni cinesi, appaiono intorno al '62, ma già da prima la discussione era molto accesa; le questioni di fondo che dividono i due più grandi partiti comunisti, rimodellate sulla situazione italiana, servono a contrastare la svolta del Pci. Tutto concorre a destare interesse sulla discussione e sulla vicenda cinese: la ricerca di un nuovo modello di socialismo e di una prospettiva rivoluzionaria, le preoccupazioni «antiriformistiche». Tematiche che servono da spunto per una battaglia contro «la linea morbida» dell'Vili congresso, sono uno strumento di pressione per sconfìggere il revisionismo nel partito, per riagganciarsi al vecchio stalinismo e alla linea dura battuta negli ultimi anni. L'atteggiamento della delegazione cinese al X congresso del Pci e poi l'opuscolo Delle divergenze fra noi e il compagno Togliatti, rappresenteranno un punto di svolta . Lo scambio di lettere, fra i comitati centrali del Pcus e del Pcc del '63, sigla definitivamente l'inconciliabilità delle rispettive posizioni . Il fronte del movimento operaio risulta spezzato: la vicenda cinese perde la sua reale connotazione, sfumano i contorni della contraddittoria lotta fra due linee economiche ipostatizzandosi agli occhi di molti quadri intellettualizzati e di giovani come un modello di rivoluzione a cui si può attingere come ad un referente ideologico buono a tutti gli usi. Confluiscono ad un tempo nelle varie letture, forzature a dimostrazione di questa o quest'altra tesi. Il rifiuto del modello tecnologico sembra definire un ambito totalmente nuovo rispetto alla scelta dell'Urss ed alle conseguenze che aveva determinato; richiama inoltre una «lotta al capitalismo» fondata su una diversa concezione dello sviluppo produttivo e tesa alla valorizzazione dell' uomo come fondamentale soggetto della trasformazione socialista. Non si tratta più della sfida sovietica agli Stati Uniti — quasi un'emulazione sul terreno del capitalismo avanzato — ma di una nuova idea di società socialista che fa leva sulle comuni agricole, sul collettivismo di fabbrica, sull'egualitarismo. La Cina e la sua scelta «del contare sulle proprie forze» si identifica col rifiuto del progresso come estraneazione, della tecnica come dominio sull'uomo. Nel mito cinese, ricco di suggestioni e carico di negazioni, si incontrano l'utopia della rivoluzione e la paura del neocapitalismo. La stessa interpretazione cinese del caso Stalin si presenta ambivalente. La versione che ne daranno i gruppi marxisti-leninisti sarà unilaterale e deformante. Per i cinesi le cose sono più complesse, ricorrendo al loro linguaggio immaginifico, scriveranno: «un'aquila può volare bassa come una gallina ma non viceversa». Nei fatti si critica l'operato di Stalin nella costruzione dello stato, nella concezione del partito e del suo rapporto con le masse; nello stesso tempo, incuranti degli errori, ci si richiama al dirigente del movimento operaio come simbolo della lotta contro l'imperialismo, per la vittoria della rivoluzione e l'edificazione della dittatura del proletariato. Rimane, con l'unica eccezione dei marxisti-leninisti di stretta osservanza, il fastidio per il culto della personalità, per i riti e le liturgie, ma esso diverrà secondario di fronte al carattere dirompente della rivoluzione culturale. Cadono le ultime diffidenze, si libera il campo dalle paure di nuovi stalinismi e alla Cina si guarda come modello di un processo rivoluzionario in cui la lotta al «revisionismo» esterno e interno è la componente dinamica e il deterrente contro l'autoritarismo e le degenerazioni del socialismo. Non sono la storia della Cina e la sua vicenda politica a fare testo, ma la lotta delle guardie rosse, esaltata in un mitico orizzonte liberatorio fatto di nuovo illuminismo aristocratico, di populismo e di dedizione rivoluzionaria. Quello che conta è il «pensiero» di Mao Tse-tung, esempio di un ideologismo «diffuso» che crea le condizioni per una concezione diversa della «metodologia» politica. Nell'assunzione del mito cinese il «partito» rimarrà una incognita irrisolta, la versione del Pcd'I (m-1) risulterà dogmatica e arretrata, sembrerà più uno spezzone residuale del terzinternazionalismo che l'interprete del dinamismo critico della rivoluzione culturale. Alla Cina, contraddittoriamente, si rivolgono sia i sostenitori del «partito» sia gli anti-partito e ognuno vi cerca la conferma delle proprie tesi. Dell'esigenza del partito, si fanno portatori i gruppi marxisti-leninisti che prendono le mosse dal dissidio e dalla successiva rottura Cina-Urss. Anche se la loro esperienza risulterà meccanica e dogmatica, essi rappresenteranno un imprescindibile punto di riferimento e di confronto per l'insieme del nuovo estremismo.
Cfr. N. Aiello, «Intellettuali e Pci», 1944-1958, Laterza, pp. 403-406.
Cfr. «Viva il leninismo», cit., p. 45.
La coesistenza attiva e il socialismo, «Narodna Armija», 28 novembre 1958; ora in «Dossier dei comunisti cinesi», cit., p. 63.
Cfr. «Interventi della delegazione del Pci alla conferenza degli 81 partiti comunisti e operai, Mosca, novembre 1960», materiale di documentazione riservato ai membri del Pci a cura della sezione centrale di stampa e propaganda della direzione del Pci.
Cfr. Gli interventi dei rappresentanti del Partito comunista cinese ai congressi del Partito comunista bulgaro; del Partito socialista operaio ungherese; al XII congresso del Partito comunista cecoslovacco; al X congresso del Pci; tutti pubblicati in «Dossier dei comunisti cinesi», cit.
Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi, «Renmin Ribao», 31 dicembre 1962.
Cfr. Documenti della discussione tra Partito comunista dell'Urss e Partito comunista cinese, supplemento a «Rinascita», n. 29, 20 luglio 1963.
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3. Le divergenze con il compagno Togliatti
Nel settembre 1962, stampato da un gruppo di dirigenti della federazione comunista di Padova, appare il primo dei tre numeri di «Viva il leninismo» . Lo scopo del giornale, che già nella testata si richiama al documento che ha avviato la polemica da parte cinese, è quello di portare avanti un mutamento in senso antirevisionista della linea del Pci. Già sono in corso i contatti fra i diversi gruppi interni al partito vicini alle posizioni cinesi (fra i principali il Centro Lenin di Milano), sono numerosi i rapporti con i trotzkisti e con la loro rete organizzativa: con Livio Maitan, loro principale esponente, ci si accorda per condurre una lotta di opposizione interna. Precedono la pubblicazione di «Viva il leninismo»: l'elaborazione di un documento in contrapposizione alle tesi del X congresso comunista e la sua approvazione da parte del comitato federale di Padova (20 voti a favore, 10 contrari, 2 astenuti). Il documento, presentato da Vincenzo Calò contesta alla radice il processo di edificazione dello stato repubblicano: «La Costituzione della Repubblica Italiana approvata nel 1947 esprime un sostanziale compromesso tra le forze popolari, guidate dal Pci, uscite dalla resistenza, e le forze del grande capitale finanziario che, andato in frantumi il blocco storico realizzato dal fascismo, cercava altre alleanze e nuovi strumenti di mediazione politica di massa, trovandoli nella De. La contraddizione si risolse sul piano dei rapporti delle forze politiche e gli strumenti pratici per attuarli sono come sempre, al di là delle vicende elettorali, i provvedimenti di polizia, le vecchie leggi fasciste, la burocrazia, insomma, la macchina statale borghese. Con tutto ciò la sostanza dello stato borghese, la sua natura di classe, non solo restano intatti, ma ne risultano rafforzati» . L'obiettivo di aggregare altre forze sulla linea del documento, non limitando la discussione alla sola città di Padova, porta alla decisione di pubblicare «Viva il leninismo». Segue l'espulsione dal Pci dei quattro firmatari del giornale. La polemica si inasprisce. Il X congresso del Pci precisa ulteriormente quella «via italiana» affermatasi nell' VIII congresso e in particolare intensifica la ricognizione sul tessuto sociale e sulle novità politiche intervenute in quegli anni, articolando su di esse la tattica e la strategia per l'avanzata democratica e socialista nel paese. Sul piano interno l'attenzione è concentrata sui temi economici e sulla necessità di costruire momenti concreti di lotta e di unità di massa attorno a quelle che vengono definite le «riforme di struttura». Una lunga parte del rapporto di Togliatti al congresso è dedicata alle questioni internazionali, vi si riprende la polemica, sostenuta alcuni mesi prima, nei confronti del partito comunista albanese. Il mantenimento della pace, i rischi insiti in un nuovo conflitto mondiale, visto, il nuovo quadro di rapporti internazionali sono l'ossatura portante di un ragionamento teorico che esalta la stretta connessione fra lo sviluppo del socialismo e la politica della «coesistenza pacifica». Togliatti (ma ancor più esplicito sarà Pajetta nel suo intervento) critica il sostegno dato dal Partito comunista cinese al Partito comunista albanese e definisce «assurda ogni accusa di tradimento della dottrina marxista-leninista e della causa rivoluzionaria» avanzata nei confronti della coesistenza pacifica. Il rappresentante del Partito comunista cinese al congresso non è da meno: «Dal momento che voi avete criticato il partito comunista cinese pubblicamente, siamo obbligati a dichiarare francamente in questa sede che noi, comunisti cinesi, abbiamo dei punti di vista differenti da quelli sostenuti da alcuni compagni del partito comunista italiano su un certo numero di questioni importanti in particolare sulla teoria delle "riforme di struttura", l'opinione sul revisionismo jugoslavo, l'attacco diretto contro il Partito del lavoro albanese, che si attiene ai principi marxisti-leninisti ed anche il punto di vista su certi problemi internazionali importanti. Riteniamo che questi punti di vista non sono né in accordo con le dichiarazioni di Mosca, né con gli interessi del Movimento comunista internazionale né favorevoli all'unità internazionale del proletariato, alla lotta contro l'imperialismo e alla lotta per la difesa della pace mondiale e che essi non corrispondono agli interessi vitali del popolo italiano stesso. Non ci è possibile entrare nei dettagli in questa sede». L'approfondimento annunciato verrà con l'articolo Le divergenze fra noi e il compagno Togliatti, nel dicembre del 1962 sul «Renmin Ribao». Le divergenze sono profondissime e riguardano l'origine della guerra moderna, il significato del negoziato politico con l'imperialismo, la coesistenza pacifica, questioni di principio sulla lotta di classe e della rivoluzione. Viene sferrato un duro attacco contro la teoria delle riforme di struttura e contro quello che è definito ilflirt col revisionismo di Tito. Per i cinesi non c'è alcun dubbio: il congresso del Pci è parte fondamentale della «corrente che va contro il marxismo-leninismo e che sta distruggendo l'unità del movimento comunista internazionale». L'analisi togliattiana dell'imperialismo, dei monopoli e della lotta per le riforme di struttura è definita illusoria e idealistica, la via italiana al socialismo è bollata come «abbandono della rivoluzione», una linea rinunciataria e collaborazionista. Secondo il Pci, sostengono i cinesi, «i popoli dei paesi capitalisti non dovrebbero fare la rivoluzione, le nazioni oppresse non dovrebbero condurre lotte di liberazione e i popoli del mondo non dovrebbero combattere contro l'imperialismo. In effetti tutto ciò è pienamente conforme alle esigenze degli imperialisti e dei reazionari». Motivi che torneranno ossessivamente nella pubblicistica marxista-leninista. Un secondo documento Ancora sulle divergenze fra noi e il compagno Togliatti, dell'inizio del 1965, insiste e rincara la polemica. Nel febbraio 1963 appare l'ultimo numero del giornale di Padova, la testata è divenuta «Viva sempre il leninismo», il Pci viene attaccato duramente mentre si sostengono le posizioni del Partito comunista cinese contro l'Unione sovietica e la svolta del XX congresso. Espulso dal partito, il gruppo di Padova manterrà rapporti con militanti di base e organizzazioni periferiche, sviluppando quella pratica entrista che sarà largamente seguita dai gruppi marxisti-leninisti fino alla fondazione del Partito comunista d'Italia. Contro la linea del Pcus, e del Pci, si parafrasano le critiche mosse dai cinesi: ormai il gruppo dirigente raccolto attorno a Togliatti ha abbandonato ogni prospettiva rivoluzionaria e leninista facendo propri i contenuti revisionisti della coesistenza pacifica, credendo di poter realizzare il passaggio dal capitalismo al socialismo senza la rottura dello stato borghese, rifiutando la dottrina della dittatura del proletariato in omaggio a una prospettiva democratica da raggiungersi con l'utilizzazione del parlamentarismo borghese. Gli attacchi, però, non coinvolgono in eguai misura tutto il partito. Esso è considerato un «corpo sano con una testa malata»: da un lato il vertice burocratizzato, dall'altro la base, formata, di «sinceri rivoluzionari». Ripetendo formule e slogan si utilizza lo stalinismo per lavorare dentro il Pci, per «conquistare la maggioranza contro una minoranza di dirigenti imborghesiti», per evitare che il Partito comunista diventi «un partito concorrente alla Dc nell'amministrare gli interessi dei capitalisti». Consapevoli che l'attacco all'Unione sovietica ha bisogno, per essere sostenuto, di un forte richiamo ideale, i filocinesi ripropongono in forma di mito la questione di Stalin, strumentalizzando la sua figura e la suggestione che esercita su certe aree del partito. Nel giugno 1963, Regis fonda, a Milano le Edizioni Oriente: un vero e proprio gruppo politico oltre che una casa editrice cui spetta il compito di diffondere e propagandare i materiali del Partito comunista cinese. Fra le prime pubblicazioni: l'antologia in cinque volumi delle opere di Mao; Proletari senza rivoluzione, di Renzo Del Carria, una storia delle classi subalterne del nostro paese. La tesi di fondo è di grande suggestione per quegli anni: il proletariato è stato costantemente tradito, i vari fuochi rivoluzionari, di volta in volta, sono stati spenti dal riformismo socialista e dal revisionismo comunista. La conclusione è altrettanto suggestiva: l'Italia non ha avuto la sua «rivoluzione» perché non e' è mai stato il partito rivoluzionario. Conseguenza e imperativo per i «veri rivoluzionari», colmare questo vuoto, dotarsi e dotare gli sfruttati di un autentico strumento di lotta rivoluzionaria. All'interno del Pci inizia una campagna di propaganda clandestina: le corrispondenze della Cina firmate con lo pseudonimo Anna Luise Strong (la giornalista americana che aveva intervistato Mao), materiali e documenti del Partito comunista cinese. Contemporaneamente si intensificano i rapporti fra i gruppi filocinesi interni ed esterni al Pci, tra loro e i trotzkisti. Nella ramificazione propagandistico-organizzativa si incontrano i residui di Azione comunista, i resti di un bordighismo riconvertito, gli sconfitti dal rinnovamento e i dissenzienti della Fgci .
I firmatari del primo numero del giornale sono: Vincenzo Morbillo (medico, del direttivo della Federazione), Severino Gambate (operaio, segretario di sezione a Riviera del Brenta), Alberto Bucco (impiegato, membro del comitato federale, consigliere comunale e presidente delle cooperative), WilsonDuse (medico, della commissione di controllo della Federazione). Gli altri due numeri di «Viva il leninismo» sono rispettivamente dell'ottobre 1962 e del febbraio 1963. Cfr.: M. Quaranta, Storia dei tre numeri di «Viva il leninismo», in «Che fare», n. 6-7, primavera 1970; R. Del carria, «Proletari senza rivoluzione», vol. V, Savelli, 1977, p. 68.
II documento è integralmente pubblicato nel primo numero di «Viva il leninismo».
«Dossier dei comunisti cinesi», cit., p. 291 e sgg.
Sulla storia dei marxisti-leninisti italiani, cfr. G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», Newton Compton Italiana, Roma 1973, p. 30 e sgg. Utile, come lettura critica dall'interno: Marxisti-leninisti: quale unità, «Lavoro politico», n. 5/6, 1968; G. Mai, Storia dell'organizzazione marxista-leninista in Italia (1963-1969), «Che fare», n. 5, estate 1969.
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4. I poli esterni al Pci
I più attivi «centri marxisti-leninisti» sono a Milano, Padova, Pisa e Roma. Ad essi si aggiunge una serie di sedi minori: Bologna, Brescia, Cagliari, Castel Fiorentino, Catania, Crema, Cremona, Ferrara, Foggia, Forlì, Genova, Lecce, Pavia, Reggio Calabria, Sassari, Savona, Siena, Udine, Vicenza. Si determinano le condizioni per dare vita al mensile «Nuova Unità». Il titolo chiarisce l'obiettivo: rifondare il giornale del partito revisionista. Nel primo numero (marzo 1964) il mensile (direttore Ugo Duse, vicedirettore Ludovico Geymonat) pubblica Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d'Italia. L'ostacolo principale da superare per raggiungere l'unità e la fusione fra i vari gruppi marxisti-leninisti esistenti in Italia, è il giudizio sul partito comunista e quali rapporti stabilire con esso; su questi punti permarranno le divisioni e le diverse interpretazioni, non sanate dalla scelta unilaterale e soggettiva di fondare nel 1966 il Pcd'I. La derivazione comunista concorre ad accentuare in questo filone della gruppettistica il riferimento alla nozione di «partito» e al «centralismo» organizzato; anzi, questa peculiarità diventerà sempre più un surrogato alla scarsezza di analisi. Nei loro, non pochi, processi migratori sarà un tratto distintivo dei marxisti-leninisti. Così come non saranno alieni dallo sperimentare nel-l'ambito della «gruppettistica» i moduli della «clandestinità». Non si tratta certamente della rete organizzativa del terrorismo, ma già nelle prime formazioni, e, più compiutamente nel Pcd'I, l'attività è soffusa di segreti e alla struttura ufficiale se ne affianca un'altra clandestina o semiclandestina che ripropone i modelli della «catena» e dell' anonimato entrista di alcuni militanti. È pertanto dal seno del marxismo-leninismo che nasce anche questa particolare vocazione all'organizzazione clandestina come preludio per la preparazione alla lotta armata, unico sbocco possibile del processo rivoluzionario. Esso si concretizzerà, oltre che nell'equivoca posizione assunta sul terrorismo altoatesino, nella sostanziale disponibilità a tutte le forme di lotta che sfociano nella violenza. Non si tratta di spontaneismo rabbioso o luddistico, quanto di costruire le condizioni per il passaggio alla violenza, a cui si guarda, sia pure in modo primitivo, fin dall'inizio del momento organizzativo. L'esplosione e il successivo declino post-sessantottesco faranno il resto. Al rischio del golpe di destra si risponderà riattivando i canali già parzialmente sperimentati, si passerà a una più raffinata clandestinità fino al sorgere del brigatismo rosso, che troverà in militanti usciti dalle organizzazioni emmelliste — è il caso di Renato Curcio e di Margherita Cagol — uno dei nuclei portanti della prima generazione di terroristi. Attorno alle Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d'Italia si realizza una parziale convergenza organizzativa. Nei confronti del Pci si oscilla fra due orientamenti contrapposti. Per alcuni, come già detto, il Pci ha un «corpo sano e una testa malata»: ne consegue il lavoro ai fianchi della base comunista, per sollecitare la protesta contro il vertice burocratizzato che ha tradito i principi della rivoluzione. Per altri, più radicalmente, il Partito comunista è «concorrente alla Dc per amministrare gli interessi dei capitalisti». Ai «veri rivoluzionari» non spetta altro che «agire come forza indipendente in ogni campo dell' attività politica, cioè tendere al proprio rafforzamento e ali' eliminazione di tutte le organizzazioni politiche antimarxiste-leniniste» . Queste due linee si confrontano e convivono all'interno del gruppo di «Nuova Unità», ma fino alla fondazione del partito prevarrà la scelta entrista. Un convegno a Napoli, nel giugno 1966, teorizzerà questa particolare forma di militanza e assegnerà ai marxisti-leninisti la funzione di «polo esterno», con il compito di premere sul Pci per modificarne la linea e per contribuire al rovesciamento dei suoi dirigenti. Il gruppo napoletano, in una lettera che viene pubblicata nel numero di settembre di «Nuova Unità», precisa ulteriormente la sua scelta entrista e considera «illusoria» ogni ipotesi di fondare un nuovo partito, mentre sottolinea la necessità di guardare con attenzione alla «dialettica in corso nel Pci» e alla sua lotta interna, prefigurando una «frattura verticale» che correggerà le deviazioni presenti. La morte di Palmiro Togliatti induce a sperare in un mutamento di linea del Partito comunista, mentre la stessa sostituzione di Krusciov viene interpretata come il segno di un possibile cambiamento di rotta nel giudizio dell'Unione sovietica nei confronti della Cina. Sono queste speranze a determinare la scelta di «Nuova Unità», nelle elezioni amministrative del novembre 1964, di appoggiare i «candidati rossi» presenti nelle liste del Pci. Si fanno distinzioni fra gli uomini del partito, si ipotizzano linee diverse, si concepisce un partito egemonizzato da gruppi di potere burocratici contro una base di fede stalinista, tradita dal suo gruppo dirigente. Si semplifica così, in modo assai rozzo e schematico, tutto il complesso travaglio del Partito comunista in quegli anni. Le previsioni di facili divisioni e rotture nel gruppo dirigente del Pci si dimostrano presto infondate e la fit-tizia unità raggiunta attorno al mensile si sfalda. Nel gennaio 1965 «Nuova Unità», dopo un solo anno di vita, cessa le sue pubblicazioni. Contemporaneamente Regis prosegue l'attività di propaganda con le Edizioni Oriente, mentre Ugo Duse, in modo autonomo, organizza militanti contrari all'entrismo. Fra questi ultimi sono numerosi i giovani: l'ultimo numero di «Nuova Unità» aveva pubblicato come inserto un foglio della costituenda Lega della gioventù comunista marxista-leninista. Duse farà parlare di sé per il tentativo di reclutare volontari per il Vietnam (un'iniziativa velleitaria e non richiesta dai vietnamiti) e per il sostegno politico dato ai terroristi altoatesini, considerati per una fase come rivoluzionari Al di là dei contrasti personali, pure acutissimi, il motivo fondamentale della rottura che mette fine alla prima serie di «Nuova Unità», è la differente concezione del partito e del modo di organizzarlo. Le questioni principali investono il rapporto teoria-pratica e il rapporto avanguardie-masse: non si tratta semplicemente di una disputa teorico-ideologica, ma di un contrasto politico di fondo che attraverserà tutta l'esperienza marxista-leninista. Senza una teoria, quale partito? La teoria della rivoluzione in Italia può risolversi nel richiamo maoista e nel? analisi del capitalismo, o deve essere qualcosa di più? E ancora: al partito si approda dopo un lungo processo di sperimentazione, costruito per tappe successive, o basta la scelta soggettiva di un gruppo dirigente? Dalla rottura emergono due tendenze che saranno permanenti nella storia dell'emmellismo. La prima dà vita al Movimento marxista-leninista che fonda il Partito comunista d'Italia. La seconda, movimentista, non condividendo la scelta forzata del partito si polverizzerà in numerose formazioni. Nell'aprile 1965, Balestri, Dinucci, Geymonat, Misefari, e Pesce riprendono le pubblicazioni di «Nuova Unità» e attorno a loro si organizza il Movimento marxista-leninista italiano. La sua piattaforma politica è rappresentata dai venticinque punti proposti dal Partito comunista cinese . Il primo maggio esce «II comunista» diretto da Duse. La polemica è su due fronti: contro il Pci, ma anche contro il gruppo di «Nuova Unità» seconda serie. L'attacco è violento, un esempio di quella che sarà una costante del movimento marxista-leninista. Nel suo primo numero «Il comunista» così scrive in polemica con «Nuova Unità» «Hanno alzato la bandiera della fedeltà ai principi solo perché la loro innata vocazione di servi li portava a pensare di sfruttare a breve scadenza, a loro vantaggio, la posizione ufficiale del Partito comunista cinese, del Partito del lavoro di Albania e di molti altri partiti fratelli contro i propri nemici personali ali'interno del Pci». «Quanto ai vecchi gloriosi compagni» (il riferimento è ai militanti rimasti nel partito) «non fanno che aspettare l'osso del padrone, lamentandosi poi della loro vita da cani» . Duse rifiuta l'entrismo e al tempo stesso la logica di costruire una nuova organizzazione rivoluzionaria, porta avanti velleitarie operazioni, considera la classe operaia italiana ormai integrata e auspica 1'esplosione della rivoluzione nel Terzo mondo. Ma i contrasti all’ interno del suo gruppo non sono sanati e mentre «Nuova Unità» accelera i tempi della costruzione del partito, i militanti che si raccolgono attorno a «II comunista» lavorano, con modesti risultati su realtà diverse senza riuscire a unificarle in un comune progetto politico-organizzativo «Nuova Unità» non è da meno nella polemica con gli ex compagni: la rottura è stata: «una battaglia vittoriosa contro le infiltrazioni provocatorie di falsi individui trotzkisti e revisionisti contro posizioni politiche sbagliate, contro le chiusure settarie, pavide e inconcludenti che sono emerse in tutta evidenza rivelandosi per quello che sempre sono state nella storia del movimento operaio internazionale, rivoluzionarismo a parole ma chiusura sul piano politico operativo, inconcludenza sul piano della costruzione della organizzazione politica rivoluzionaria, spirito di setta e discriminazione verso il contributo che sinceri ed onesti compagni rivoluzionari possono portare allo sviluppo della lotta» . Pur proseguendo nella logica dell' entrismo nel comitato nazionale provvisorio del Movimento sono presenti, fra gli altri, sedici membri i cui nomi non sono resi pubblici perché ancora militanti del Pci, si avvertono i limiti della teoria dei «poli» esterni e interni mentre lo sviluppo della situazione cinese innesca nel gruppo ripensamenti sulla linea organizzativa seguita. È difficile dire quanto i militanti marxisti-leninisti italiani conoscessero le novità che stavano prendendo corpo in Cina, va segnalato, però, che in quei mesi si avvia il processo che porterà alla rivoluzione culturale cinese. Contrariamente alle aspettative la destituzione di Krusciov, sincronica con lo scoppio della prima atomica cinese (ottobre '64), non aveva aperto una fase nuova fra i due partiti. Né il mutamento dei caratteri del conflitto vietnamita, in conseguenza dell'incidente del Golfo del Tonchino e dei primi bombardamenti americani su Hanoi, avevano spinto a modificare le reciproche posizioni per costruire un fronte unico contro l'imperialismo. In questo quadro non era certo possibile sperare in un mutamento del Pci e in una composizione col «revisionismo»; ormai al revisionismo andava portata una lotta a fondo, senza tregua. Nel settembre '65, Mao lancia la «rivoluzione culturale». Nel febbraio 1966 il Comitato centrale cinese, sembra su indicazione dello stesso Mao Tse-tung, respinge il documento elaborato dal «gruppo dei cinque, incaricato della rivoluzione culturale» come espressione di quella che verrà definita la «linea nera» di Liu Shao-Chi. Le accuse sono violente, si parla di revisionismo. Il testo è definito «contrario ali' idea di portare fino in fondo la rivoluzione socialista» e una sostanziale copertura «alla destra borghese e prepara l'opinione pubblica alla restaurazione borghese» . La circolare del comitato centrale, bollando inesorabilmente il revisionismo di Liu Shao-Chi, che riceverà l'appellativo di «Krusciov cinese», poneva la lotta interna al partito come condizione indispensabile per l'affermazione di una linea autenticamente rivoluzionaria. Il 25 maggio '66, sui muri dell'Università di Pechino appare il primo dazebao «il primo manifesto a grandi caratteri marxista-leninista della Cina» . Il rettore dell'Università di Pechino viene rimosso e dopo poche settimane il comitato centrale lancia i «sedici punti» della rivoluzione culturale e nel paese si sviluppa il movimento delle guardie rosse. Sincronica a questi sommovimenti l'accelerazione della riflessione del gruppo «Nuova Unità»: nel marzo 1966 la pubblicazione delle Linee organizzative del movimento marxista-leninista italiano e nel giugno Avanti con la costruzione del partito. Mentre nel gruppo di «Nuova Unità» si delinea la scelta di chiudere con ogni ambiguità nei confronti del Pci, il variegato panorama della gruppettistica marxista-leninista si muove in altre direzioni.
Fanno parte del comitato nazionale: Balestri, Bargagna, Bucco, Di-nucci, Frangioni, Gambate, Lanza, Misefari, Montemezzali, Nadalin, Sartori, Parolini, Pesce, Pisani, Risaliti, Robustelli, Santorelli, Savi, Scavo, Tosi, Zampieri e altri undici membri di cui non vengono resi noti i nomi perché iscritti al Pci, cfr. R. Del Carria, cit., p. 70.
«II comunista», n. 1, maggio 1965.
«Nuova Unità» (seconda serie), n. 1, aprile 1965.
Cfr. L. Foa, A. Natoli, «La linea di Mao, spontaneità e direzione nella rivoluzione culturale cinese», De Donato, 1971.
La rivoluzione culturale alI'Università di Pechino, «Monthly Review», n. 8/9, 1969.
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5. Linea nera e linea rossa
All'inizio del 1966 «II comunista» dà vita alla Lega dei comunisti marxisti-leninisti d'Italia a cui affianca la Lega della gioventù comunista m-1 con un proprio giornale, «Gioventù rivoluzionaria». L'incontro con Azione comunista, di provenienza trotzkysta, non si dimostra fruttuoso e inizia la catena delle espulsioni. L'accusa è sempre la stessa, «trotzkysmo», un anatema che significa un po' tutto: revisionista, antipartito, operaista, piccolo borghese. Le espulsioni coinvolgono numerosi dirigenti della Lega della gioventù: si ricostituiscono in gruppo e fondano il giornale «Gioventù marxista-leninista». Gli espulsi e i fuoriusciti da «Il comunista», con l'appoggio delle Edizioni Oriente, avviano una serie di contatti con i vari gruppi marxisti-leninisti e le redazioni dei giornali. Approderanno, in un convegno in estate, ad un momento di sintesi attorno ad alcuni documenti programmatici e su questa base, a Milano nel luglio 1966, fondano la Federazione marxista-leninista d'Italia . La Lega dei comunisti, sia pure con un ruolo marginale, prosegue la sua esperienza incontrandosi con la rivista «Nuovo Impegno», per separarsi poi in due tronconi: uno confluirà prima nel Manifesto e infine, accusando l'insieme della sinistra extraparlamentare, entrerà nel Pci; l'altro si unificherà con Unità operaia . Le Edizioni Oriente hanno una funzione decisiva nella diffusione delle posizioni cinesi, conquistano prestigio e autorità tra i militanti marxisti-leninisti e tra i filocinesi interni ed esterni alle organizzazioni tradizionali. Per tutta una fase mantengono una posizione autonoma nello scontro fra «Nuova Unità» e «II comunista». Progressivamente anche le Edizioni Oriente passano a una diversa fase organizzativa danno vita al Centro Lenin che, con un suo documento, prende posizione sul problema del partito, convergendo teoricamente con l'impostazione de «Il comunista». Il centro sostiene la costruzione della Federazione, mentre diserta il congresso costitutivo del Partito comunista d'Italia. Nel complesso però la dislocazione delle Edizioni Oriente continua a essere incerta e solo all'inizio del 1968 sembra profilarsi una più compiuta sistemazione teorica. Nell'editoriale di gennaio-marzo, la rivista «Vento dell' Est», partendo dalla constatazione che esistono «vari gruppi che si richiamano al marxismo leninismo e si dichiarano antirevisionisti», propone una «grande alleanza» fra tutte le organizzazioni marxiste-leniniste per avviare un'unità politica e organizzativa di tutte le parti del movimento. La nascita della Federazione marxista-leninista compromette il progetto del gruppo di «Nuova Unità», indebolendo l'ipotesi della fondazione del partito rivoluzionario e incrinando la sua possibilità d'attrazione. Fra Federazione e «Nuova Unità» l'altalena di accuse diviene presto ossessione polemica. Rileggendo la pubblicistica marxista-leninista appare assai complesso ricostruire le ragioni reali dello scontro: sono analoghe le critiche che vengono mosse dall'una e dall'altra parte, è difficile orientarsi in una terminologia in cui tutto è astrattezza, tutto è «revisionismo» e «antirevisionismo», tutto si etichetta e si riduce a schema. Ma al di là del linguaggio usato, lo scontro si concentra fondamentalmente attorno al giudizio sul revisionismo e sul processo di costruzione del partito rivoluzionario. In assenza di una precisa analisi politica e nel dogmatico ricorso alle posizioni cinesi, tutto si riduce alla lotta di frazione e di piccolo gruppo, in una gara a chi è il più fedele interprete delle verità del marxismo-leninismo, verità di cui tutti sono convinti di essere gli unici possessori. «Nuova Unità» si presenta come «organo del movimento marxista-leninista italiano» e presume di orientare il processo per la costruzione di un «autentico» partito comunista (marxista-leninista) dando per scontata l'esistenza di un movimento marxista-leninista. Di opinione contraria «II comunista», per il quale si è ancora nella fase del lavoro «per la vittoria del marxismo-leninismo», sottotitolo che usa in analogia con la prima serie di «Nuova Unità», non essendo ancora precisati i tempi e le condizioni per la fondazione di un partito antirevisionista. Si tratta dunque di scelte e di concezioni organizzative diverse: la necessità di realizzare «un forte collegamento fra i gruppi marxisti-leninisti» diventa per «II comunista» rigidità, settarismo, chiusura ideologica, dogmatismo e sfiducia nei processi reali; per «Nuova Unità» è questione prioritaria il salto organizzativo, cioè il partito, prima ancora di aver verificato il suo rapporto con le masse; infine per la Federazione marxista-leninista, incurante dei rischi eclettici, il problema è il movimento. La rivista «Lavoro politico» (organo marxista-leninista), in un articolo apparso nel 1968, così spiega i contrasti fra «Nuova Unità» e «II comunista»: «Accettare la tesi de "II comunista" significava accettare che dovesse continuare ancora un dibattito teorico per realizzare l'unità dei marxisti-leninisti, discriminare gli antirevisionisti generici, prima di dar vita al movimento. Accettare la tesi dei dirigenti di "Nuova Unità" significava impegnarsi nella costruzione del movimento e significava anche rompere con coloro che non riconoscevano in esso un movimento marxista-leninista. Si chiarisce così anche il carattere antagonistico del dissidio: da una parte "Nuova Unità" dando vita al movimento marxista-leninista italiano, non poteva che porre come condizione ai marxisti-leninisti italiani, di essere tali nel movimento; d'altra parte "II comunista", negando a tale movimento un carattere marxista-leninista, non poteva che portare come condizione ai suoi militanti di raccogliersi intorno al giornale per preparare il movimento in futuro. Queste scelte rappresentano una "contraddizione fra noi e il nemico", perché mettono uno dei due schieramenti nella condizione di agire come elemento di confusione e di disturbo nei confronti del vero movimento marxista-leninista, a tutto vantaggio dei revisionisti». «Nuova Unità» definisce «frazionistica» l'attività de «Il comunista»; mentre le Edizioni Oriente decidono di rimanere autonome e di non schierarsi nel dibattito in corso. Intanto si intensificano le tappe per la fondazione del nuovo partito. Dopo il convegno nazionale del movimento marxista-leninista del gennaio 1966, un susseguirsi di appuntamenti, elaborazioni programmatiche e infine la pubblicazione documento Avanti con la costruzione del Partito. A settembre «Nuova Unità» lancia il congresso di fondazione, esalta la decisione del comitato centrale del Pcc sulla Rivoluzione culturale proletaria, attacca violentemente il Pci, ridotto ali'impotenza da un «mucchio di capi traditori» che lavorano per «disfare lo spirito rivoluzionario delle masse» e acconciarle al «pacifismo idiota» e al «democraticismo piccolo borghese». Scrive con sicurezza: «Con la rottura del Pci da parte dei marxisti-leninisti, si salverà l'onore dei combattenti e — pur tra dolori e sacrifici — la classe operaia da una lunga stretta dell'imperialismo con braccia socialdemocratiche e il volto del Pci» . Il 14 ottobre è la «data storica». Il teatro Goldoni di Livorno, lo stesso della scissione del 1921, è il luogo simbolico scelto per la fondazione del nuovo partito rivoluzionario: il Partito comunista d'Italia (marxista-leninista). È sancita la svolta definitiva nel rapporto col Pci: ormai esiste un'organizzazione alternativa al «revisionismo». La sua esperienza sarà largamente inferiore alle roboanti affermazioni, tuttavia l'atto soggettivo e volontaristico della fondazione di un partito, definito come tale, diventa un termine di confronto e di discussione per tutta l'area minoritaria. Sul tema «partito e organizzazione» le polemiche saranno dure, anche se è proprio su questo argomento che si registreranno vari tentativi di riaccorpamento. In tutti i giudizi formulati nel!' ambito dei gruppi sull'esperienza marxista-leninista troveremo sempre critiche di ideologismo, di velleitarismo e di scarsa analisi, ma l'attenzione ai temi del partito sarà unanimemente sottolineata come la caratteristica fondamentale del magmatico insieme che si riconduce agli «emmellisti». La dichiarazione di principio del congresso è una sequela di accuse al revisionismo e da queste si fa discendere, in tono trionfalistico, il valore della fondazione del vero partito rivoluzionario. Di fronte al tradimento e alla degenerazione del Partito comunista, si pone il «compito storico» di ricostruire «!'avanguardia cosciente e organizzata del proletariato e delle masse popolari». Anche se le forme organizzative si diversificheranno, questo schema di ragionamento sarà ricorrente, lo ritroveremo — infatti — nella teoria del «nucleo d'acciaio che costruisce il partito», dell'Unione dei marxisti-leninisti e nella scelta di «Lavoro politico» di confluire nel Pcd'I . È una scelta in mancanza della quale le «masse» rimarrebbero senza «guida», ed è l'affermazione della volontà di marcare un'egemonia sull'insieme di una sinistra «rivoluzionaria» ipotecata dal rischio della dispersione movimentista. Il nuovo partito elegge segretario Fosco Dinucci. Fra i suoi dirigenti ci sono Osvaldo Pesce, Livio Risaliti, Vittorio Misefari. Il mitizzato rapporto con le masse sarà scarso: lavoro di propaganda e di diffusione del materiale cinese, iniziative di formazione sui principi del marxismo-leninismo, alcune manifestazioni antimperialiste. L'esperienza è caratterizzata più come critica al Pci e reclutamento di qualche suo militante che come iniziativa politica autonoma. Lo stalinismo è il tratto di congiunzione con una base comunista scarsamente politicizzata e facile alla critica ma che tuttavia non si distacca dal suo partito. Qualche risultato si ottiene nei confronti dei militanti più giovani, gli stessi che, di fronte alle successive novità movimentiste, saranno i principali protagonisti della sua stessa crisi. La Federazione marxista-leninista, bollata da «Nuova Unità» come «Federazione antipartito», vede la costruzione del partito come un «atto arbitrario» compiuto «senza aver aspettato di raccogliere e rappresentare tutti i marxisti-leninisti». Il movimento studentesco da parte sua nutrirà una profonda diffidenza, sarà attratto dalla Cina e dalla Rivoluzione culturale, ma non dalle parodie del Pcd'I, considerato un residuo di terzinternazionalismo. I gruppi saranno particolarmente duri; la critica sarà comune: dogmatismo, ideologismo. Il Pcd'I «nell'autoproclamarsi partito non rappresenta nulla per la classe operaia italiana. Non ha una strategia, non ha una analisi delle classi: insomma, non possiede quella teoria rivoluzionaria senza la quale per Lenin non si può parlare di partito» . Ma proprio in questo autoproclamarsi partito sta la ragione del sia pur minimo aumento dei suoi militanti: tra il 1966 e il 1968 il Pcd'I rafforza la sua organizzazione mentre entra progressivamente in crisi la Federazione marxista-leninista che si divide in piccoli raggruppamenti. L'aver posto il tema del partito e lo schematico ricondursi a Lenin, Mao, Stalin, e Gramsci esercita una suggestione per giovani studenti e nuovi militanti con scarsa esperienza politica. Con il crescere del movimento studentesco il Pcd'I perderà questa funzione, altre esperienze sembrano più dinamiche nell'interpretare la dialettica direzione-spontaneità della Rivoluzione culturale. Peraltro la sua tesi dello studente «piccolo-borghese» lo estranea dal flusso settantottesco, mentre le lotte interne, condotte a colpi di slogan e di incomprensibili accuse reciproche, lo dilanieranno. Il Pcd'I all'atto della sua costituzione in partito, secondo la logica emulativa della scissione del '21, ripropone la struttura organizzativa del Pci per cellule e federazioni. Nella prima fase il nucleo portante è formato da ex militanti del Pci e non mancano alcuni ex partigiani attratti dal mito di Stalin e da nostalgie per la lotta armata risolutiva. Il reclutamento è selettivo, con la «candidatura» e la successiva iscrizione al partito. In alcune istanze si indulge a pratiche clandestine o semiclandestine. L'intervento è essenzialmente burocratico e propagandistico: si tratta per lo più di ampliare l'organizzazione, diffondere testi e documenti cinesi, fare la campagna di abbonamenti a «Nuova Unità». Le presenze esterne sono limitate e circondate di mistero, mentre tutto è ridotto a semplice schema e a slogan. Scuotono questa ripetitività e la piattezza della vicenda del Pcd'I alcune iniziative realizzate davanti alle fabbriche e i modesti risultati che si ottengono nella costruzione di alcuni comitati di lotta. Nei pochi volantini distribuiti agli operai dai gruppi d'intervento di «Nuova Unità» si condanna la prospettiva unitaria del sindacato per esaltare il sindacato «di classe», secondo lo stereotipo del sindacato ideologico cinghia di trasmissione del partito. Non manca mai il richiamo alla organizzazione: tutti i testi, qualunque sia la situazione, chiudono con l'appello alla costruzione delle cellule del «vero partito comunista rivoluzionario, il Pcd'I». Sull'altro fronte, quello della Federazione, non si fanno consistenti passi in avanti nella definizione di una linea. Si oscilla fra il rigorismo settario della purezza marxista-leninista e una pratica di movimento che tende ali' incontro con aree eterogenee, ne deriva un sostanziale eclettismo ideologico-teorico. Nei confronti del Pcd'I, pur contestando la sua scelta, non si è assunto un discrimine preciso: il mutare di segno del dibattito sull'organizzazione rende inevitabile un travaso di militanti. Le commistioni con il trotzkismo e con il guevarismo sono frammenti teorici e spunti per una sperimentazione che la struttura confederale adottata non riesce ne a orientare ne a coordinare. Sarà un esempio tipico la nascita del Centro antimperialista Che Guevara, un nucleo che avrà una notevole incidenza nella storia del movimento studentesco e dell'estremismo romano. All'inizio del 1967, sono ormai presenti tutte le condizioni della svolta sessantottesca e della nuova fase dell' estremismo. E cresciuta l'esigenza di realizzare un fronte unico delle nuove avanguardie, di quella che viene definita la «nuova sinistra antirevisionista»: una necessità avvertita non solo dai gruppi del vario operaismo e del frastagliato emmellismo ma anche da militanti del Psiup, da giovani delle cellule universitarie del Pci, dai comitati redazionali delle riviste, dai gruppi dello spontaneismo cattolico. Si manifesta così una fase di quell'alternanza, caratteristica e fisiologica del nuovo estremismo, fra la tendenza ali' unificazione delle varie esperienze e la rigida e settaria difesa del «gruppo». Per gli operaisti, provenienti dai «Quaderni rossi» lo scivolamento verso il partito tradizionale di parte di «Classe operaia» è la conferma dell' urgenza di un'adeguata svolta organizzativa in alternativa al revisionismo. I marxisti-leninisti, pur rappresentando l'area che con più forza ha posto il problema, finiscono per dare una risposta parziale e arretrata, che produce ulteriori divisioni. Per il militante antirevisionista in cerca di organizzazione è difficile orientarsi nel ginepraio del gruppismo e nelle varie, sottili distinzioni. Pensiero di Mao e pratica sociale sembrano i due punti di riferimento fondamentali per unificare una «nuova sinistra» troppo frammentata e incapace di contrapporsi al revisionismo del Pci. In questo contesto, nel corso del 1967, si collocano l'incontro promosso a Bologna dalle riviste dei vari gruppi, le inchieste sul minoritarismo e gli stessi gruppi di pressione all'interno dell'area marxista-leninista. Emblematica l'esperienza della rivista «Lavoro Politico», nata dal Centro di informazione di Verona con militanti usciti dal Pci e dal Psiup, si lega alle vicende dell'occupazione dell'università di Trento del 1967, ramificandosi poi in varie realtà con l'ampliamento progressivo del comitato redazionale. Nel corso del 1968 la sua tiratura passerà dalle 2.000 copie iniziali alle 5.000 . La rivista si muove nell'ambito ideologico del marxismo-leninismo; pur giudicando insufficiente e non sostenuta da un'adeguata pratica di massa la scelta del partito compiuta dal Pcd'I, finirà per condividerla. In una prima fase la rivista non compie un'«aprioristica scelta d'organizzazione»: solo nella primavera del 1968, rettifica tale posizione assumendo il documento del gruppo scissionista delle Edizioni Oriente come possibile base di lavoro per un'unificazione dei marxisti-leninisti. In questo modo rifiuta la proposta avanzata dalla casa editrice di una «grande alleanza», e la pratica eclettica della Federazione per riconoscere al Pcd'I il ruolo di «autentica organizzazione marxista-leninista». Ma la convergenza del gruppo di Walter Peruzzi nel «partito» non risolve le contraddizioni, anzi concorre ad accelerare i tempi della rottura. Nel dicembre 1968, quando il movimento studentesco è già entrato nella sua fase di riflusso, si ha la scissione del Pcd'I. Il congresso straordinario mette sotto accusa la segreteria, Dinucci, Pesce, Risaliti. Gli accusatori sono Dini, Misefari (direttore di «Nuova Unità»), Gracci, Sartori, Balestri, Peruzzi. La segreteria è giudicata espressione della «linea nera» ed è accusata di sabotare «la costruzione del partito sulla linea di massa». E il punto critico sottolineato da «Lavoro Politico» all'atto della confluenza, quando, in polemica con ogni concezione attivistica della costruzione di massa, rimarcava l'esigenza di procedere contemporaneamente al radicamento fra le masse dei militanti e ali'aumento della loro capacità di «tradurre le esigenze oggettive delle masse nella linea e nella pratica politica del partito» . Gracci, Dini e Sartori, compongono la nuova segreteria. Primo atto: l'espulsione di Dinucci, Pesce e Risaliti «cricca di rinnegati infiltrati in posizione di potere». Il 10 dicembre escono due numeri di «Nuova Unità»: e tutti e due si presentano come organi del Pcd'I. Per l'estremismo uno sarà quello della «linea nera» (Dinucci), l'altro quello della «linea rossa» (Gracci) che sarà poi sostituito da «Il Partito». La sostanza politica dello scontro è il rapporto che intercorre fra organizzazione e lavoro di massa. Si accusa la linea nera di non sviluppare un'analisi adeguata della realtà italiana di imporre ai militanti una sterile e ripetitiva propaganda di principi e di essere un partito estraneo alle masse, guidato da una logica bordighiana tutta esterna allo scontro di classe e alla sua dinamica. Sono critiche ricorrenti nelle molte scissioni dei «comunisti marxisti-leninisti» e che rappresentano il nodo irrisolto dell'emmellismo: il passaggio dai principi alla loro concretizzazione pratica. Per «Il Partito» di Gracci l'obiettivo invece è la linea di massa, essere «avanguardia della classe» e non un «organo esterno». Sono solo intenzioni che non troveranno altro sviluppo che una progressiva frantumazione organizzativa. Peruzzi sarà espulso nell'agosto del 1969, accusato di «avventurismo e frazionismo organizzato». Altri militanti entreranno nell'Unione dei comunisti italiani (m-1), un'esperienza che riprodurrà tutte le vecchie contraddizioni e da esse sarà ulteriormente frantumata. La linea nera, che continuerà a essere riconosciuta da Pechino, subisce analogo processo di decomposizione. All'inizio del 1969 nasce l'Organizzazione dei comunisti italiani, con il giornale «La voce rivoluzionaria». A Napoli Hermann fonda il Pcd'I (m-1) — Lotta di lunga durata. Osvaldo Pesce, espulso, da vita all'Organizzazione dei comunisti (m-1) d'Italia, con il giornale «Linea Proletaria». Giovanni Scudieri fonda l'Organizzazione bolscevica, e pubblica «II Bolscevico». Anche i due tronconi in cui si era divisa nell'estate 1968 la Federazione, il Partito comunista rivoluzionario (m-1) con il suo «Rivoluzione proletaria» diretto da Giuseppe Mai e Avanguardia proletaria maoista (Semeraro, Spazzali, Thiella), subiscono ulteriori scissioni. Il Partito comunista rivoluzionario confluirà nell'Unione, mentre dalla rottura di Avanguardia nasce il Partito comunista marxista-leninista maoista italiano, che ha come organo «II Compagno» diretto da Semeraro. E un groviglio di sigle destinate all'estinzione per esaurimento e a fornire militanza ai gruppi nonché ai primi nuclei terroristici. Ad ogni rottura segue la fluidificazione: il sapore amaro della sconfitta annebbia la capacità di analisi e fa occultare dietro ideologismi di maniera le ragioni dei fallimenti. Velleitarismi e insuccessi diventano la pericolosa miscela di ogni avventura che faccia balenare la possibilità di uscire dalla sfasatura fra le ambizioni del progetto e il risultato conseguito.
Cfr. G. Mai, Storia dell'organizzazione marxista-leninista in Italia (1963-1969), cit.
Cfr. Documento di unificazione.
V. Misefari, Livorno anno '21, «Nuova Unità» (seconda serie), 1 ottobre 1966.
Nell'inverno 1968, una parte del gruppo redazionale di «Lavoro politico» confluirà nel Pcd'I alla vigilia della sua scissione in «linea nera» e «linea rossa».
II dogmatismo del Pcd'I (m-l), «Avanguardia operaia», n. 3, 1969.
II comitato di redazione è composto da: Maura Antonini, Duccio Berio, Marisa Bertolini, Francesco Brunelli, Mario Luigi Bruschini, Tommaso Carcelli, Amanda Cheneri, Renato Curcio, Corrado Diamantini, Edda Foggini, Sandro Forcato, Giovanni Mari, Paolo Mosna, Walter Peruzzi, Cesare Pitto, Luciano Viti.
II marxismo-leninismo oggi in Italia, «Lavoro politico», n. 7, 1968.
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