V
IL SESSANTOTTO: LA RIVOLTA DEGLI STUDENTI
|
1. I protagonisti
II Sessantotto, l'anno degli studenti, rappresenta un punto di sutura tra vecchio e nuovo. Vi si addensano informalmente le culture politiche del dissenso nato ai bordi e dentro la sinistra tradizionale, le spinte di una generazione in cerca di nuove libertà, desiderosa di ridefinire la politica, la morale, i caratteri di una società moderna e al tempo stesso anticapitalistica. Nella molteplicità delle valenze e dei significati, nell'ambiguo procedere del suo sviluppo, nella dialettica fra normalizzazione e dissacrazione, nelle oscillazioni fra modernismo e mitologia, il Sessantotto rappresenta un nodo cruciale nella formazione di una più avanzata coscienza sociale. È l'emergenza di un processo sociale e politico da cui non si può prescindere nell'esperienza successiva del movimento operaio e del complessivo sviluppo democratico. Il suo mimetico riassorbimento, le dimenticanze, come le tendenziose apologie, le variabili impazzite o normalizzanti, sono altrettante testimonianze di una sommersa e non ricomposta rottura del quadro politico post-resistenziale e, per l'insieme della sinistra italiana, della crisi irreversibile del togliattismo. Dopo il Sessantotto la sinistra sarà diversa: salteranno i suoi precedenti confini e i suoi contorni teorici e sociali esigeranno una completa ridefinizione, mentre si aprirà una profonda contraddizione fra il bisogno-desiderio di cambiamento e il concreto svolgersi delle vicende politiche. Troppo spesso nel panorama delle interpretazioni sono prevalse le tendenze alla generalizzazione, a scapito di una ricerca tesa a cogliere le dinamicità interne del Sessantotto. Le oscillazioni fra l'enfasi trionfalistica del «glorioso appuntamento» e la buia precipitazione nella zona del terrorismo, così, come i vari tentativi di appropriazione, unilaterale, non hanno concorso a un' indagine sulle pluridirezionalità del «movimento» e sui policentrismi che ne sono originati. In realtà lo spartiacque del Sessantotto è stato assunto più nella sua valenza di sommovimento civile che indagato nelle sue implicazioni politiche, anzi proprio la radicalità della sua critica alla politica è stata ampiamente rimossa, lasciata ai suoi percorsi carsici o parzialmente cooptata più nelle forme sociali e comportamentali che nel sistema politico. Il Pci, nel suo cimentarsi con un fenomeno estraneo alla sua tradizione, tenderà a farne sparire le differenze interne valorizzando come dato di fondo l'emergere di un' esigenza di socialismo e un'inarrestabile domanda di democrazia partecipata, da contrapporre come valori al «gruppismo» e allo sviluppo dell'estremismo. In realtà lo stesso coraggioso pronunciamento di Longo nella primavera del '68 se evita una totale rotta di collisione tra il Pci e il «movimento» tuttavia non sana le fratture e il confronto procederà per fasi alterne. Per il Pci il tragitto interpretativo sarà finalizzato alla riappropriazione di un movimento nato fuori dalla sinistra storica, mentre i partiti del minoritarismo considerando il Sessantotto fallito per l'assenza di una dirczione antirevisionista e per la sua incapacità ad esprimere un'autonoma capacità di organizzazione, concorreranno alla sua polverizzazione. Soffocata in questa morsa, la vita del movimento non troverà più i fasti del magico «anno degli studenti», il suo rifluire sarà sancito dal proliferare del gruppismo e le sue delusioni si distribuiranno fra normalizzazione e «autonomismo». Dalla stretta non uscirà il cosiddetto «nuovo movimento» del '77 che, liquidata ogni visione elegiaca del Sessantotto, non riuscirà a trovare alcuna forma di dialogo con le culture politiche esistenti. Solo una ricognizione puntuale delle varie tematiche e dei molteplici «richiami» evocativi può rispondere all'interrogativo su quanto del sessantottismo si sia innestato, arricchendolo, nel flusso più generale del movimento democratico; ma anche di quanto si sia disperso o tradotto in vischiosa tendenza involutiva. Dunque non solo «l'assalto al cielo», ma anche la caduta nei meandri del terrorismo e i tanti metamorfici effetti boomerang di un'inesaudita domanda di nuovo ordine sociale. Il generarsi di un movimento senza precedenti, per estensione e novità, la sua stessa dinamica interna ed esterna, produce una gamma di comportamenti e posizioni teorico-politiche solo meccanicamente riconducibili a unità. Una nuova soggettività scende in campo: la lotta contro l'autoritarismo come lotta contro il potere e lo stato sociale esistente, sono grandi categorie etico-comportamentali che racchiudono un variegato panorama di approcci culturali e di tendenzialità politiche il cui esito e il cui sviluppo non saranno scontati. Emerge in modo dirompente un protagonismo diffuso; la richiesta di trasformazione sociale di una generazione che entra con prepotenza sulla scena politica si intreccia con l'esigenza e la richiesta di valori totalizzanti. Ma è una generazione senza storia, anzi infastidita da ogni memoria storica, incline all'assemblaggio delle suggestioni e dei concetti più diversi. Sono i giovani i principali soggetti sociali di quest'eccezionale stagione di lotta, ne saranno protagonisti nelle giornate di trionfo e di esaltazione e perciò stesso pagheranno il prezzo più alto delle successive delusioni. Il loro stato sociale non è definito, non sono una classe, non sono intellettuali, in quell'essere «studenti» ci sono la provenienza e le aspettative, quello che «si è» ma anche quello che si vorrebbe essere. Vivono contraddizioni comuni: su di essi gravano le arretratezze di una scuola non riformata, i guasti e i meccanismi distorti di una società falsamente opulenta che non ha sanato i suoi squilibri economici e sociali. Se la categoria marxista di «classe» risulta inadeguata è impropria a definire il loro stato, tuttavia vi è una comune identità che li costituisce come un gruppo sociale decisivo per lo sviluppo della lotta politica nel paese. Non militano in nessun partito, alcuni, una minoranza, ne sono ai margini, fortemente critici, chiedono un diverso impegno civile e politico. Molti hanno seguito con passione la vicenda e la morte del Che, hanno letto Mao, Lenin e Rosa Luxemburg, hanno partecipato alle lotte per la pace nel Vietnam. Alcuni hanno orbitato attorno al dissenso cattolico, molti non hanno mai fatto politica, non sanno neppure che cos' è un partito e scopriranno il «fare politica» in quell'anno travolgente. L'identikit dello studente «sessantottino» è presto fatto. E nato alla fine della guerra e non è rimasto sconvolto dalla guerra fredda; alle medie è stato affascinato dai patrioti ungheresi poi al liceo ha manifestato contro i missili americani puntati su Cuba. In qualche caso ha avuto anche simpatie destreggianti e gli amici più grandi gli hanno raccontato del luglio sessanta. I figli dei comunisti vedono nei padri l'accettazione del sistema e delle sue regole normalizzanti, i figli della borghesia sono in rotta di collisione con la loro classe di provenienza, i figli degli impiegati e degli operai avvertono come una fregatura l'essere stati ammessi all'università, perché sanno che per loro non sono aperte tutte le strade e a loro non sono concessi privilegi. I più impegnati sono stati dentro l'organizzazione delle riviste, altri sono corsi con slancio e passione civile a Firenze nel 1966, nei giorni dell'alluvione; loro banco di prova le manifestazioni per la pace. Non si ritrovano né nella Fgci, né nelle altre organizzazioni giovanili: le contestano o le usano per contestare i partiti. Le organizzazioni universitarie li infastidiscono e solo una minoranza troppo «inserita» presta credito ai loro «parlamentini». Anche se hanno letto e studiato sono sostanzialmente autodidatti della politica: da ciò deriva la forte inclinazione all'eclettismo e alle mode culturali. Sono stati al Piper e ai concerti rock, hanno amato Bob Dylan, Joan Baez; alcuni portano ancora la cravatta ma i più l'hanno abbandonata per l'eskimo e le camicie militari alla «Fidel»; presto sparirà anche la minigonna, sostituita dal sobrio vestire degli «angeli del ciclostile», le future militanti del femminismo. Detestano l'ordine, il pierinismo e il perbenismo del militante della sinistra ufficiale. Insomma sono passati a vele spiega tè per il sogno degli anni sessanta, arrivando alle soglie degli anni settanta carichi di una grande, inesauribile voglia di cambiamento. Proprio questa massa eterogenea, percorsa al suo interno d diversità di provenienza e di livelli culturali, agitata da suggestioni e tensioni contraddittorie fra loro, sarà la protagonista indiscussa del «movimento studentesco». Una concezione diversa della conflittualità sociale, insieme al modificarsi della consapevolezza soggettiva e all'introduzione di nuove forme di lotta, squassano il tradizionalismo del quadri politico; mutano lo scenario dello scontro sociale, sia per quelli che riguarda il rapporto col movimento operaio e la sua esperienza, sia travolgendo quell'embrionale gruppismo che pure aveva concorso a sedimentare e gettare le basi dell'esplosione sessantottesca. Costume, morale, politica, cultura, tutto si scopre e si in venta: per grandi masse di giovani è l'anno zero. Attorno alle lotte dell' università un po' tutti finiranno per fare «autocoscienza» la cultura della sinistra storica si rende permeabile e disponibile quasi colpevolizzata per i suoi limiti e ritardi; la gruppettistica è superata nei fatti dal movimento e affronta il salto organizzativo su scala nazionale. Con il '68 si conclude un ciclo storico e insieme a quelle che saranno le conseguenze dell'autunno caldo operaio, si gettano le premesse di una profonda crisi delle vecchie classi dirigenti e dei tradizionali meccanismi del consenso sociale. Il centrosinistra, consumatosi nell'altalena delle formule e dei difficili equilibri politici si è dimostrato inadeguato a risolvere i problemi del paese; i miti del benessere, del consumismo e del miracoli economico hanno permeato la società, ma a questa penetrazione non ha corrisposto la necessaria trasformazione, anzi, ulteriori profondissimi guasti sono stati prodotti nel tessuto economici e sociale. Nella situazione italiana, l'idea riformista di un neocapitalismo tecnocratico, capace di sanare le conflittualità e di risolvere le sue contraddizioni è risultata astratta e idealistica; per gli antiriformisti è una paura del tutto infondata di fronte alla realtà. Il dibattito apertosi negli anni sessanta sui caratteri dello sviluppo economico non ha sciolto i nodi di fondo, anzi eterogenei innesti culturali hanno concorso a circondarlo di schematismi e massimalismi, e la stessa riflessione avviata sulle riviste, nonostante le generose premesse, piuttosto che ancorarsi alla concreta realtà ha finito per privilegiare il ricorso a modelli interpretativi, mutuati da altre esperienze culturali e politiche, manifestando forti inclinazioni idealistiche. A partire dal '56, la sinistra non ha più ricomposto la frattura. L'entrata dei socialisti nella «stanza dei bottoni» ha diviso il movimento operaio e, l'unificazione con la socialdemocrazia, a cui hanno lavorato ampi settori del Psi, paventa un ulteriore spostamento in senso moderato, in netta contrapposizione con l'aumentata consapevolezza di una radicale svolta politica. La diffusa esigenza di unità di classe viene vissuta come sfondamento dei tradizionali steccati costruiti dalle varie forze politiche e come piena riappropriazione di una conflittualità di massa liberata dalle tante mediazioni e trappole delle leggi della politica. Le proposte del «partito unico» dei lavoratori di Amendola, e quella di una «Confederazione» dei movimenti giovanili, non corrispondono a queste tensioni, anzi rischiano di apparire un espediente tattico e contingente, ne convincono le lentezze e le prudenze con cui si fa strada il processo di unificazione delle organizzazioni sindacali . Al finire degli anni sessanta si determina una vera e propria rottura fra la società politica e la società civile. Coinvolta in questa crisi, l'esperienza storica della «sinistra» non è più riconosciuta come portatrice di un progetto di trasformazione, capace di rispondere a un nuovo per quanto indistinto bisogno di «socialismo». La necessità è quella di un socialismo non identificabile con modelli o esperienze precedentemente realizzate, ma che nasce da una nuova concezione del far politica e si scontra con il bagaglio ideologico e con gli apparati burocratico-organizzativi dei partiti. La politica, come luogo delle mediazioni, come scienza del possibile, con i suoi tempi e il suo realismo, è troppo lenta e grigia rispetto al sociale e alla libertà di immaginare e desiderare una diversa società e un radicale mutamento dei rapporti fra gli uomini. Dalle regole del partitismo non si riscattano gli stessi «gruppetti di sinistra»: ne sono una riprova sia l'incontro di Bologna tra le varie formazioni minoritarie sia l'inchiesta promossa dalle riviste nel 1967. Dopo oltre un decennio, nell'aprile '80 su «l'Unità», Claudio Petruccioli tornando sul valore «di rottura» del Sessantotto scrive: «esso esprime un rifiuto del blocco dominante che aveva avuto una continuità ventennale, sia pure con la rilevante variazione del passaggio dal centrismo al centrosinistra. La gente, in particolare le ultime leve giovanili, ma anche la classe operaia, larghi strati di intellettuali e di ceti medi misero in discussione norme, limiti, regole, poteri, che sino a quel momento erano sembrati intoccabili e insuperabili. Da allora si è aperta una crisi del blocco dominante raccolto intorno alla Dc, crisi che dura tuttora» . Ma questo rifiuto è ancora più netto e radicale, investe non solo il blocco dominante ma la stessa opposizione e, di conseguenza, il ruolo del movimento operaio considerato come parte integrante del sistema di potere. Nello spettacolo della politica ognuno recita la sua parte, e ognuno recita la parte definita da un copione comunemente accettato. Da questo giudizio nascono le ambivalenze e le diverse direzionalità di un processo che segna un totale sconvolgimento nella dislocazione dei vari strati sociali e nei loro orientamenti ideali, un sommovimento che in modo non meccanico, come prova lo spostamento a destra del '72, sarà alla base del terremoto elettorale della metà degli anni settanta. Un percorso che, in un confronto serrato ed antagonistico con il Partito comunista e il movimento operaio, mette in discussione la qualità dello Stato democratico e sviluppa un diffuso anti-istituzionalismo in cui confluiscono fenomeni di sovversivismo e di violenza. Nella sua formazione e nelle sue aspirazioni la generazione del '68 è totalmente diversa da quella che nel '60, insieme all'ampio movimento democratico, aveva concorso a liquidare il governo Tambroni e a spezzare per sempre ogni tentativo di neocentrismo. Allora fu decisiva la congiunzione che si realizzò fra i giovani «delle magliette a strisce» e la vecchia generazione, la stessa che aveva scritto la pagina della Resistenza e aveva mantenuto aperta la via della libertà e dello sviluppo democratico . In quelle giornate si scopriva, nella lotta, il valore del nesso inscuidibile fra socialismo e democrazia: da ciò il senso della continuità di storia ed esperienza. E questa saldatura che nel sessantotto si incrina. Le ragioni di questo endemico processo di rottura, che esploderà nell'anno degli studenti, sono da ricercarsi nel divario fra ciclo politico e maturazione sociale; peraltro, nella stessa qualità della lotta operaia, si assiste a un arretramento, particolarmente sensibile dopo il '63-'64, mentre al contrario cresce la mobilitazione antimperialistica, grande banco di prova di quella che è stata definita «la generazione del Vietnam».
Nell'asprezza della polemica che segue e accompagna le divisioni intervenute nel campo socialista, la stessa nozione di socialismo si depura di concretezza caricandosi in questo modo di desideri e utopie che liberano l'orizzonte della sua applicabilità.
La proposta del «partito unico» della sinistra si pone con forza nel dibattito politico della seconda metà degli anni '60. Per il Pci Amendola ne è il più coerente sostenitore; l'argomento sarà ripreso nella relazione di Longo all'XI congresso.
«l'Unità», 20 aprile 1980.
|
2. La scuola di classe
Ancora nel 1975, Giorgio Ruffolo in Riforme e controriforme, scriveva «Per quanto possa sembrare strano non esistono nella sterminata letteratura sugli studenti e sul movimento studentesco indagini sociologiche d'insieme». A partire dalla seconda metà degli anni sessanta l'espansione scolastica è impetuosa. La condizione universitaria si fa esplosiva. Sulla situazione come si presenta alla fine degli anni sessanta Rossana Rossanda scrive : «Nel mezzogiorno continentale i tre atenei di Roma, Napoli e Bari superano rispettivamente 60.000, 50.000, 30.000 iscritti», e ancora «gli insegnanti di cattedra che erano nel 1923 2.075 per 43.235 studenti sono diventati 3.000 per 450.000 studenti» . Nel 1967, l'anno delle prime occupazioni, gli immatricolati sono più di 140 mila, i nuovi iscritti sono 20 mila di più che nell'anno precedente. L'assetto istituzionale dell'università, nelle sue strutture portanti, è ancora quello varato nel 1923, ma rispetto ad allora il numero degli studenti universitari è duplicato. Moltissimi i fuori corso; la media nazionale è di un laureato su quattro immatricolati. Il mutamento non è solo quantitativo: è cambiata la composizione sociale degli studenti e il fenomeno si scontra con le arretratezze del sistema universitario. In Parlamento la riforma non procede. Non si interviene per affrontare le esigenze strutturali e manca una visione d'insieme del problema universitario e del suo rapporto con lo sviluppo economico del paese. Il progetto governativo si trascina per oltre tre anni. Manca di respiro, non affronta la complessità dei temi posti dall'università di massa: si ferma alla revisione degli ordinamenti introducendo un corso breve di diploma, parallelo al corso di laurea, una corsia di alleggerimento a fronte dell'alto numero di iscritti. Il lungo iter parlamentare si sviluppa in mezzo a contrasti nella maggioranza e a forti resistenze di un mondo accademico che non accetta modifiche. Il manifesto dell'occupazione di Torino rappresenterà questa conservazione vecchia e arretrata in un lugubre teschio ricoperto dalla feluca accademica. Il Parlamento è la cassa di risonanza del-l'opposizione accademica: 86 deputati (Dc e liberali) si iscrivono a parlare contro la richiesta comunista di introdurre il tempo pieno per i professori universitari. La discussione alla Camera si svolge mentre nel paese iniziano le occupazioni. Le università diventano il laboratorio di una sperimentazione politica autonoma dai partiti e dalle loro rigidità ideologiche e organizzative, mentre si estingue progressivamente il ruolo delle vecchie organizzazioni studentesche, e monta la critica al revisionismo. Una critica che diventerà senso comune nel sessantotto; per revisionismo si intendono cose diverse fra loro: la rinuncia al progetto rivoluzionario, il giudizio sulla democrazia, la concezione delle alleanze sociali, la natura dello sviluppo economico da ciò i dissensi sulle forme e ragioni del socialismo, sulle condizioni della sua realizzabilità. Alcune di queste riserve saranno superate negli anni successivi quando, in seguito a parziali insuccessi e delusioni soggettive, numerosi quadri studenteschi entreranno nei partiti della sinistra storica e nel movimento sindacale. Non c'è dubbio alcuno: le lotte nell'università in quegli anni segnano in modo indelebile la storia del paese, la successiva esperienza del movimento operaio e lo stesso destino della democrazia nel nostro sistema politico e sociale. Il risultato elettorale del maggio '68, con l'affermazione del Pci, sconfìggerà l'ipotesi di socialdemocratizzazione adombrata nella temporanea unificazione tra Psi e Psdi e ratificherà il declino della formula di centro-sinistra, tuttavia agli occhi degli studenti il successo comunista non cancellerà la delusione e l'amarezza del dopo maggio francese. Torna in tutta la sua acutezza il nodo del «partito rivoluzionario»; un vuoto che consente al «revisionismo» di riassorbire tutte le spinte rivoluzionarie nel grigiore della politica delle condizioni oggettive, e impedisce la vittoria dell'«immaginazione al potere». Certo, anche nel Pci le cose si muovono: attorno al giudizio sul «movimento» si apre un intenso dibattito, i drammatici eventi cecoslovacchi e la coraggiosa presa di posizione della direzione del partito sembrano caratterizzare una fase nuova, mentre nascono i primi segni di quella che sarà la vicenda del «Manifesto». Ma intanto nel crogiolo del movimento trovano un'ampia area di reclutamento i nuovi gruppi, che si sono rigenerati nella lotta e, anche se permane al loro interno la dialettica spontaneità-organizzazione, ormai tendono ad assumere una configurazione nazionale e a porsi in aperta e decisa competizione con le organizzazioni storiche del revisionismo. Sia pure nelle rispettive specificità sono molti i nessi che si stabiliranno, e non solo per continuità temporale, fra l'esplosione sessantottesca e l'autunno caldo dell'anno seguente. Elementi accomunanti non sono solo le forme di lotta, il corteo, l'assemblea ma valori, desideri, esigenze, basti pensare alla funzione dell'egualitarismo. Eppure l'intreccio non si realizza compiutamente e se per il sindacato si apre una stagione di rinnovamento, anche se non esente da errori e da fughe in avanti, per il movimento studentesco si bruciano presto le tappe e si arriva rapidamente ai primi segni di declino. L'anno degli studenti è turbinoso, ma altrettanto fulminea è la sua caduta, una caduta che lascia segni profondissimi. Tra l'inverno e i primi mesi dell'estate si consumano i fasti del Movimento studentesco, si entra bruscamente nella fase del suo riflusso: alla ripresa dell'anno scolastico tutto sarà diverso. La qualità e l'estensione delle lotte studentesche sconcerta e trova tutti impreparati; il loro uscire dall'ambito universitario con obiettivi politici generali è il segno della crescita politica di una generazione e delle sue aspirazioni sociali. Esistono più centri di direzione del movimento, anche se costantemente discussi e sottoposti a vere e proprie rigenerazioni in una costante e diffìcile dialettica con la totalità delle masse studentesche. Attribuire unicamente un'origine spontanea, sociologicamente protestataria, espressione di volontà partecipativa e democratica, sarebbe fuorviante nella comprensione dell'insieme dei contenuti reali del movimento e delle linee forza che lo agitano e ne determinano il suo svolgimento e i suoi esiti. Come già accennato, negli anni del «miracolo economico» la popolazione studentesca aumenta a dismisura, la scuola e l'Università si aprono alle diverse classi sociali, una democratizzazione che, in assenza di innovazioni, acutizza le contraddizioni sul piano dei contenuti didattici e nella determinazione di un nuovo rapporto fra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. Il prolungamento degli studi diventa un fatto obbligato, l'università «un'area di parcheggio» per disoccupati, una componente del mercato del lavoro. Al tempo stesso muta l'atteggiamento soggettivo verso il lavoro, cresce una domanda qualitativa e si manifestano i limiti della vecchia divisione del lavoro e del suo assetto gerarchico. Sono questi elementi che scardinano nel profondo gli equilibri della società italiana e producono un sommovimento nella collocazione e negli orientamenti delle diverse classi sociali. La scuola è messa sotto accusa come portatrice di vecchi valori, primo momento della selezione di classe, luogo di normalizzazione accondiscendente alle regole del vecchio ordine sociale e alle sue ingiustizie. Chiaro esempio di questa lettura critica è il testo collettivo elaborato dalla scuola di Barbiana Lettera a una professoressa; al libro di don Milani si ispira un'intera generazione nella sua lotta contro la scuola e i suoi meccanismi repressivi, primo anello del sistema capitalistico ed espressione della sua strategia di dominio. Nell'espansione del moto studentesco concorrono fatti oggettivi: l'entrata in crisi dei vecchi modelli culturali e teorici, i problemi occupazionali, la riflessione sul ruolo della scuola e degli intellettuali e insieme la crescita di una nuova soggettività, conseguenza della trasformazione della stessa composizione della gioventù studentesca. Le forze di sinistra non colgono a pieno l'eccezionalità della fase politica che si apre, manifestando ritardi e incertezze di fronte al mutarsi dei comportamenti collettivi e di massa; permangono conservatorismi nell'affrontare in termini del tutto nuovi la stessa natura del «socialismo» e i suoi caratteri in una società occidentale. Già nelle occupazioni del '67, come risulta dalle Tesi della Sapienza approvate a Pisa, si manifestano i tratti principali dell'esplosione sessantottesca. Le piattaforme delle varie facoltà (Trento, Venezia, Pisa, Roma) suggeriscono le coordinate entro cui tende a muoversi il movimento studentesco. Il vecchio sistema rappresentativo, raccoltosi attorno all'Ugi e all'Intesa — rispettivamente organizzazioni studentesche della sinistra e dei cattolici — è ormai entrato in crisi. Tra il '60 e il '68 la crescita di una nuova consapevolezza politica fra le giovani generazioni non si accompagna a un rafforzamento delle organizzazioni giovanili dei grandi partiti di massa, anzi, al contrario, si assiste al loro progressivo svuotamento e al declino della loro influenza politica. Per i giovani l'approccio con la politica tende sempre più a identificarsi col gruppismo. Vi è maggiore disponibilità organizzativa, non vi sono principi d'autorità da rispettare, maggiore libertà intellettuale. La Fgci e il Movimento giovanile della Democrazia cristiana, pur mantenendo sul piano degli iscritti le loro caratteristiche di organizzazioni di massa, soffrono i limiti della «partitocrazia» e la loro stessa ricerca di autonomia risulta asfìttica nel confronto con uno sperimentalismo proteso a reinventare le forme del fare politica . Mentre mutano i tradizionali contorni ideologici, in un processo che non riguarda solo i grandi partiti di massa ma anche le formazioni minori (è il caso della sinistra liberale e di quella repubblicana), la struttura burocratica del «partito» non risponde più alla qualità della domanda di rinnovamento. L'essere dentro le regole del gioco ha finito per imprigionare la politica in una gabbia e la stessa «sinistra» ne ha subito un'amputazione, ridotta nel suo campo d'azione, sterilmente divisa nelle diatribe fra i partiti del movimento operaio, dal loro tatticismo e dal bisogno di legittimarsi al quadro democratico come riconoscimento dell'esistente. Contro questa logica, la fisionomia della sinistra va reinventata, dilatandone i confini e superando ogni schematismo partitocratico, per privilegiare la forza dell'atto rivoluzionario come rottura del vecchio ordine sociale con le sue regole codificate.
R. Rossanda, «L'anno degli studenti», De Donato, 1968.
Iscritti al Movimento giovanile della Dc e alla Fgci nel periodo 1959-1967:
|
3. La fine delle rappresentanze studentesche
La fluidità ideologica delle due fondamentali organizzazioni studentesche, l'Unione goliardica italiana (Ugi) e l'Intesa, pur spingendo a un' autonomia dal tradizionale assetto politico, non riesce a liberarle da quel burocratismo da piccoli partiti che ne impedisce un rapporto esteso e nuovo con le masse studentesche. La costituzione della giunta di collaborazione fra Ugi e Intesa, nel 1964, è un momento importante del processo di autonomia dai partiti anche se l'impostazione tecnocratica dell'Intesa mette in ombra la politica per sostituirla con un illuminismo moderato, vicino all'ideologia riformistica del primo centro-sinistra. La battaglia contro il «piano Gui», la riforma universitaria proposta dal governo, segna il punto più alto di sintonia fra la giunta e le masse studentesche. Nel novembre 1964 si proclama lo sciopero generale, e la mobilitazione trova il suo apice nella manifestazione nazionale dell'aprile 1965. La convergenza sarà di breve durata. Nel frattempo il Pci interviene con durezza per contenere il rivoluzionarismo della Fgci. Si conclude l'esperienza della sua rivista «Città futura» che raccoglie nella redazione militanti con doppia tessera, che si richiamano a Trotzky come Claudio Di Toro, Augusto Illuminati, Pio Marconi, Silverio Corvisieri, Franco Russo. Prima dell'XI congresso, nel partito si accentua la polemica Amendola-Ingrao, la direzione del partito, lanciando un evidente segnale e un monito, respinge le tesi congressuali della Fgci. Nel corso del '67 si matura il superamento delle rappresentanze universitarie scavalcate dalla pratica delle occupazioni e aspramente contestate al XVI congresso dell'Ugi. Si consuma e si conclude in quell'anno la «preistoria del '68» come la definisce Marco Boato . La proposta di «sindacalizzazione» degli studenti lanciata dall'Ugi al congresso di Napoli (maggio 1965) non riesce a decollare per le ostilità dell'Intesa che, contraria a ogni analisi di classe della condizione dello studente, è ancora prigioniera del mito dell'autonomia ideologica e politica dell'operatore culturale. Senza un comune progetto di adeguamento, senza una proposta organizzativa capace di rispondere alla spinta partecipativa, aumenta lo scollamento fra rappresentanze e masse studentesche. Fallito il tentativo di riforma proposto al congresso Unuri di Viareggio (marzo 1966), hanno vita vari tentativi di organizzazione di base, una sperimentazione locale dissolvente rispetto alle strutture nazionali. L'occupazione romana che segue la morte del giovane Paolo Rossi, nel corso di un attacco squadristico, non riesce a rivitalizzare il completo esaurirsi di una fase. La crisi esplode in tutta la sua acutezza nel seminario dei quadri delle Rappresentanze (9-10 settembre '66) all'inizio del nuovo anno universitario. È l'atto conclusivo di un progressivo deterioramento nei rapporti fra le organizzazioni universitarie, la logica conseguenza dello scadimento nei metodi politici, e dell'incapacità di scegliere fra innovazione e conservazione. Non salva l'inarrestabile frantumazione la proposta, abbozzata dalla Fgci, di un processo di unificazione delle varie componenti studentesche dall'Ugi all'Intesa. Al consiglio nazionale del 28-30 gennaio '67 vengono presentate le dimissioni della giunta Unuri. Le vecchie organizzazioni, ormai sclerotizzate nelle schermaglie interne e in costante polemica fra loro, non riescono a fronteggiare la fase che si è aperta; ossificate nel loro burocratismo sono spiazzate dal sorgere di una nuova «politicizzazione» di massa. Nel '67 esplodono le «lotte di base»; esse rompono ogni logica di prolungamento della battaglia parlamentare e dei suoi schieramenti politici nell'università. Nascono forme aggregative libere da schemi ideologici precostituiti che contestano la delega, la rappresentanza e ogni mediazione esterna, e cercano il pieno coinvolgimento di tutti gli studenti. L'«assemblearismo» sostituisce il filtraggio delle decisioni, le estenuanti mediazioni, il distacco della dirigenza da una base che vuole invece essere protagonista. Con l'occupazione della Sapienza a Pisa (7-11 febbraio 1967) si ha un decisivo salto di qualità. L'agitazione, decisa a Bologna dall'assemblea degli studenti delle facoltà occupate (Firenze, Torino, Roma, Cagliari), vuole essere un contrappunto alla conferenza nazionale dei rettori organizzata a Pisa. Il documento politico assunto come piattaforma unitaria contesta i tradizionali organismi rappresentativi e ne denuncia: «sia il verticalismo parlamentaristico, del tutto privo di un vero controllo democratico di base, sia 'la politica unitaria', fondata sulle alleanze tra cattolici e forze di sinistra ed esprimente interessi puramente riformistici, interni al sistema capitalistico e miranti in sostanza ad un suo più efficiente funzionamento, non ad una sua globale contestazione» . Le Tesi della Sapienza e la loro successiva rielaborazione per il congresso dell'Ugi di Rimini radicalizzano la proposta di sindacalizzazione degli studenti avanzata dalle organizzazioni studentesche della sinistra. Esse acquisiscono la peculiarità della condizione studentesca, come ragione di una nuova vertenzialità e, rifiutata ogni mediazione istituzionalizzata, assumono come controparte degli studenti «la classe dominante», contestando ogni tentativo di programmare lo sviluppo capitalistico. Il congresso dell'Ugi (maggio 1967) segna la temporanea sconfitta delle Tesi della Sapienza, aggiornate come Tesi di Pisa, e dimostra l'inconciliabilità fra le due linee presenti nella sinistra universitaria. Parte della componente comunista e i di quella socialista si irrigidiscono su una concezione moderata e legalitaria del «sindacato», mentre i gruppi e l'area raccolta attorno alle Tesi pongono la necessità di un'inequivoca funzione antirevisionista del nuovo movimento e delle sue forme organizzative. Se nella prospettiva della sindacalizzazione degli studenti, tema che la Fgci trascinerà fino al convegno di Ariccia del novembre 1968, lo studente è visto come «forza lavoro in via di formazione», le Tesi radicalizzano il rapporto studente-classe operaia in quanto: «Sul piano di un modello formale di processo di valorizzazione, lo studente appare come produttore di valore (si qualifica e pertanto si autovalorizza) e come consumatore di valore, distinto a sua volta in valore sociale (i servizi che gli fornisce lo Stato) e il valore salario privato (il mantenimento da parte della famiglia): in questo senso lo studente appare come una figura sociale sia pure ai margini del processo di valorizzazione» . Considerata erronea una definizione di classe «semplicemente in funzione del collocamento all'interno del processo di valorizzazione del capitale», lo studente è a tutti gli effetti una «componente interna alla classe operaia» se si tiene conto della «divisione capitalistica del lavoro e della funzione parcellizzata-subordinata» che esso assume nella sua attività universitaria. Ne deriva che: «il sindacato studentesco, analizzando e contrattando il momento di formazione della forza-lavoro, entra in rapporto col sindacato operaio. La base comune di questo rapporto è l'analisi dell'uso capitalistico della forza-lavoro. Partendo da questa analisi, il sindacato studentesco rivendica di essere inquadrato nel sindacato operaio» . Rifiutata così la tradizionale e arretrata lotta per il diritto allo studio, si passa alla rivendicazione del salario: «lo studente è un lavoratore e, come tale, se produce ha diritto al salario e se non produce non ha diritto di restare all'università» . Sotto l'influsso delle teorizzazioni dei «Quaderni rossi» e di «Classe operaia» di un piano del capitale teso al dominio delle varie articolazioni del sociale, nelle Tesi si tende a unificare lotta economica e lotta politica, puntando a un progetto totalmente antagonistico, finalizzato a scardinare gli equilibri del sistema: «La distinzione tra organizzazione dentro il sistema per la difesa degli interessi immediati (sindacato) e organizzazione antagonista al sistema (partito) tende a vanificarsi, o quanto meno ad essere assai meno netta, nella misura in cui la crescente socializzazione di ogni componente sociale, in termini di piano centralizzato, fa sì che ogni movimento parziale di contestazione dell'ordine esistente divenga immediatamente politica (generale) venga inevitabilmente assorbita dal sistema, riorganizzata nel sistema superiore, non appena essa abbia fallito l'uso eversivo delle fasi di squilibrio del sistema che si sono storicamente presentate» . Le Tesi non sono evasive sull'obiettivo principale: fondare una nuova strategia rivoluzionaria, capace di rappresentare un decisivo superamento delle concezioni revisioniste. Denunciata l'assenza di un partito e di una strategia rivoluzionari, nella «consapevolezza che questa contraddizione» può essere eliminata solo «attraverso la costruzione del partito politico di classe», esse affermano che l'azione del nuovo movimento acquista validità nella generalizzazione delle esperienze di lotta antimperialiste espresse nel mondo della scuola. In sostanza spetta agli studenti radicalizzare la lotta di classe e costruire una nuova dirigenza politico-rivoluzionaria . La mozione che si contrappone alla linea ufficiale dell'Ugi contesta ogni «strategia parlamentaristica» e respinge ogni visione di lotta sindacale inquadrabile nelle regole dell'organizzazione del lavoro salariato imposto dal capitalismo. Contro questa impostazione polemizza la Fgci, che vede nel sindacato studentesco un momento specifico della battaglia per la riforma universitaria. A poche settimane dal congresso, Claudio Petruccioli della segreteria nazionale della Fgci, attacca duramente «chi vuole parlare della classe operaia o di rivoluzione al di fuori e contro i partiti della classe operaia» . Sono chiari ormai i termini dello scontro: il documento pisano ha prodotto uno strappo nelle organizzazioni studentesche, non chiede più un'agibilità politica funzionale alla condizione universitaria e una generica alleanza con il movimento sindacale, ma rivendica una diversa strategia rivoluzionaria. A Rimini il contrasto interno alla sinistra universitaria non trova nessuna possibilità di mediazione, quello del 1967 è l'ultimo congresso dell'Ugi, poi le sue componenti si dissolveranno nel movimento. «Il congresso», scrive in luglio Paolo Flores D'Arcais, esponente della sinistra Ugi: «non ha potuto ricomporre un dissidio che ormai riguarda la strategia della sinistra rivoluzionaria e in essa il ruolo della componente studentesca, e ha condotto a chiarire fino in fondo i termini della divisione» . Considerata «riduttiva e settoriale» ogni lotta universitaria «concepita in funzione prevalentemente parlamentare», va ricercato un coinvolgimento di «tutto il movimento di sinistra, in quanto la trasformazione della scuola è legata al rovesciamento dell'assetto generale della società». In questo modo, prosegue Flores D'Arcais, «i conflitti interni al mondo universitario possono divenire un punto di tensione utilizzabile solo nella misura in cui determinati obiettivi, largamente sentiti, sono inseriti in un generale programma anticapitalistico, proprio di un partito di classe. La lotta della sinistra rivoluzionaria giovanile non può dunque svolgersi solo nei luoghi di studio: passa dentro e fuori di essi come passa fuori e dentro i partiti; forse, anzi, proprio in ragione di ciò» . Incurante della sua crisi e del tutto separata dal nuovo movimento, liquidato con la generica accusa di «nullismo politico», l'Intesa da parte sua prosegue per la vecchia strada, lanciando una battaglia di retroguardia attorno ai problemi posti dalla legge di riforma universitaria. Con questa visione arriva stancamente al suo consiglio nazionale a ottobre, rispondendo ai fermenti interni e di base che spingono per un totale rinnovamento strategico, con un'involuzione dei vertici dell'organizzazione e la sostituzione del segretario generale. Parallelamente il presidente dell'Ugi, in presenza di un'insanabile contrapposizione fra le correnti interne, rassegna le sue dimissioni al convegno nazionale di novembre a Firenze. Tra crisi e travaglio, nel dissidio tra innovazione e conservazione, si realizza lo scioglimento, per altro mai sancito ufficialmente, dell'Ugi. Una parziale riconversione dell'Intesa si manifesterà l'anno successivo mentre sono in corso le occupazioni delle principali università. Nella mutata situazione la vecchia dirigenza sarà liquidata e sostituita da quadri formatisi in esperienze di base, più organici al movimento: «la mano passa ai situazionisti» . Ma il tentativo avrà il fiato corto, nonostante gli elementi innovativi e le aperture del documento approvato dal nuovo consiglio nazionale, l'Intesa non reggerà il passo e sarà spazzata via dall'onda montante delle lotte studentesche. Scompaiono così, senza alcuna ufficializzazione, le obsolete strutture delle organizzazioni studentesche, al tempo stesso si recidono le connessioni con i partiti tradizionali che, privi di ogni mediazione, avranno ormai come loro interlocutore l'insieme del movimento studentesco. Rimarrà, unico residuato, nella pratica inesistente e silenzioso, l'Unuri che si autoscioglierà l’ 8 dicembre 1968, lasciando a testimonianza del «congelamento» della sua esperienza un patetico e inutile documento-mozione .
M. Boato, «II '68 è morto: viva il '68!», Bertani Editore 1979, pp. 110-149, il saggio appare su «La Critica sociologica» n. 21, primavera '72, pp. 208-231 con il titolo Per un'analisi dell'origine storico-politica del movimento studentesco.
Cfr. U. Carpi e R. Luperini, L'occupazione della Sapienza e il nuovo movimento studentesco, «Nuovo impegno», n. 6/7, novembre 1966 - aprile 1967.
Cfr. Lotta dì classe nella scuola e nel movimento studentesco, «Quaderni di Avanguardia operaia», n. 2, Sapere Edizioni, 1971, pp. 86-88.
«L'Università: l'ipotesi rivoluzionaria», Marsilio, 1968, pp. 165-166.
C. Petruccioli, Un nuovo sindacato universitario, «Rinascita», n. 9, giugno 1967.
P. Flores D'Arcais, I giovani della nuova sinistra, «La. Sinistra», n. 7, luglio 1967.
Cfr. La mano passa ai situazionisti, «Italia-cronache», n. 2, 31 gennaio 1968; sulla crisi dell'Intesa, S. Bassetti, La crisi ai vertici dell'Intesa, «Questitalia» n. 114/115.
Sullo scioglimento dell'Unuri cfr.: M. Boato, cit., pp. 142-146; UNURI la morte ritardata, «L'Astrolabio» n. 49, 15 dicembre 1968; A venticinque anni l'UNURI era vecchia, «Sette giorni» n. 79, 15 dicembre 1968.
|
4. Pisa, Trento, Venezia
Le riviste seguono con attenzione lo sviluppo del movimento, diventano il principale veicolo per la divulgazione dei suoi documenti e intrecciano la loro stessa mutazione politica agli esiti della lotta studentesca. Nel luglio 1967 uscirà il numero speciale redatto collettivamente da «Quaderni piacentini», «Nuovo impegno» e «Classe e Stato» suImperialismo e rivoluzione in America Latina: è la svolta politica. «Nuovo impegno» si identifica con le Tesi della Sapienza e polemizza con le conclusioni del congresso dell'Ugi, contemporaneamente si impegna nell'inchiesta sui gruppi minoritari. «Lavoro politico» propone l'apprendistato del maoismo. «Giovane critica» si cimenta sul tema dell'organizzazione e del partito. Attorno al nuovo movimento si ricompone e si addensa l'insieme del travaglio del decennio. In un mutato e più fecondo scenario sociale si presenta l'occasione per la fondazione della «nuova sinistra». In questo passaggio cruciale i gruppi e le riviste si rigenerano, dilatano i loro ambiti di influenza e avviano nuovi percorsi organizzativi. Il gruppo perde la sua precedente fisionomia, si mimetizza e al tempo stesso recluta nuove forze, mentre le varie posizioni teoriche subiscono una trasformazione per effetto di assonanze e di commistioni. La mobilitazione antimperialista agisce come catalizzatore di una nuova consapevolezza rivoluzionaria. La lotta del popolo vietnamita è il simbolo della possibile vittoria della guerra di popolo sull'imperialismo. L'antimperialismo non è un mitico terreno unitario ma lo spartiacque tra revisionismo e rivoluzione. Nascono accese polemiche: dagli slogan contrapposti si passa alle rissose contestazioni. A Firenze sono fischiati La Pira e Codignola, oratori ufficiali di una manifestazione pacifista, la giornata si chiude con la carica della celere e le barricate nel centro della città. In polemica con Fortini dei «Quaderni piacentini», Claudio Petruccioli scrive su «Rinascita»: «Quando Franco Fortini, nel corso di una manifestazione studentesca, in mezzo a tante altre deliranti affermazioni, giunge a dire che sul Vietnam non ci si unisce ma ci si divide, o gruppi di provocatori fischiano Codignola e La Pira che aderiscono senza equivoci e reticenze alla lotta per la pace e la libertà del Vietnam, allora esiste un ostacolo, un pericolo che dobbiamo abbattere e spazzare via» . E’ l'aprile del '67 e ancora non sono spenti gli echi delle occupazioni di Trento, Venezia e Pisa; di lì a poco, al suo XVI congresso, avverrà la spaccatura dell'Ugi. Il Vietnam, la Cina, Cuba sono i simboli del nuovo internazionalismo, di una rivoluzione possibile contro il revisionismo, il capitalismo e l'imperialismo. Se le Guardie rosse della rivoluzione culturale bombardano il «quartier generale», in occidente si fanno i conti con la tradizione culturale e politica, si mettono in discussione le regole del «gioco» politico. Si vive in un clima attraversato da spezzoni teorici eterogenei, da un ampio ventaglio di suggestioni e di ipotesi molto diversificate fra loro, su cui si riverberano le divisioni del movimento operaio internazionale e l'incertezza della prospettiva del socialismo. Il proliferare dello sperimentalismo politico determina un approccio alla questione del socialismo pieno di ambivalenze che fluidifìca provenienze culturali e matrici ideali. In quegli anni la battaglia per il rinnovamento della scuola italiana avviene in modo confuso e con scarsi successi. Il centrosinistra, al di là delle sue roboanti affermazioni, trascina il problema, oscilla fra revocazione di riforme generali e interventi parziali e sporadici, che arrivano in ritardo, senza efficacia e tempestività, privi di respiro . Un limite serio all'iniziativa comunista è la difficoltà di costruire un'estesa battaglia nel paese. Si registra una scissione fra condotta parlamentare e movimento, molte le polemiche fra partito e cellule universitarie sulle forme di lotta da adottare e sulle finalità delle agitazioni studentesche. Il gonfiamento dell'università, la sua crisi strutturale, la mancata riforma, la questione degli sbocchi professionali, si accompagnano al bisogno di entrare sulla scena sociale che un'inte-ra generazione va affermando. Le teorie sociologiche, in particolare il marcusismo, hanno un grande influsso sul clima delle lotte universitarie, a esse si aggiungono esperienze collettive e umane nate sulla spinta delle poliedriche controculture che vagano per il mondo: iprovos olandesi, gli hippies inglesi, i situazionisti tedeschi, il fascino dei modelli e delle forme della «rivoluzione», il mito costruito attorno a Cuba, Vietnam, Cina. La politica supera la soglia dell'analisi e dell'organizzazione per diventare fatto comportamentale; un'immediatezza che attrae i giovani, anche se in questa sua dilatazione tende alla schematizzazione, alla riduzione, allo slogan, alla ricerca di una sua forzosa semplicità. Nell'estensione delle lotte universitarie il motore principale è il riconoscimento dell'incompabilità fra una scelta anticapitalista e l'università, con le sue strutture, il suo funzionamento, i suoi corsi, i suoi rapporti col mondo del lavoro. A Torino, a Trento, come in molte altre occupazioni al centro della discussione il tema, non nuovo nella storia del Movimento studentesco, dell'avvenire delle facoltà scientifiche . L'università è funzionale al sistema e scardinare il sistema è possibile solo negando il ruolo specifico dell'università. È l'illusione della rivoluzione dietro l'angolo, la sfiducia nei tradizionali modi di trasformazione, troppo lenti di fronte all'ansia di cambiare. Col crescere delle lotte, l'ambito universitario diventerà stretto e si imporrà la ricerca di nuovi spazi politici e la necessità di una strategia politica complessiva. In Europa e nel mondo è un grande sussulto, enormi masse studentesche scendono in piazza non per una scuola diversa ma per una diversa società. Un filo rosso corre fra le varie parti del globo, congiunge insieme in una comunanza ideale i giovani italiani con i giovani di Berkeley, con le Guardie rosse della lontana Cina, con gli studenti di Strasburgo, con la Lega degli studenti socialisti della Germania, con le tensioni che animano le università di Praga e di Parigi. In Italia, nella peculiarità della situazione politica e nell'incontro-scontro col movimento operaio, si determina la tipicità di un fenomeno che si conclude nell'«anno degli studenti» ma rompe con forza gli argini della «questione studentesca», invadendo per varie vie l'insieme del quadro politico. Nel corso delle tumultuose giornate di occupazione, nelle manifestazioni a getto continuo convivono in forme nuove gli spunti elaborativi e le teorizzazioni che, negli anni precedenti, erano state alla base delle agitazioni delle principali università, in particolare delle occupazioni di Trento, Venezia, e Pisa. Sono esperienze diverse fra loro che si ritroveranno come stratificazione o come vera e propria evoluzione nelle varie linee e tendenze che, pur nella loro conflittualità, sono il motore dinamico del «movimento». L'«operaismo» nelle sue ramificazioni, prodotte lungo il percorso originatesi attorno ai «Quaderni rossi» e a «Classe operaia», si cimenta a Pisa nelle Tesi della Sapienza enfatizzando la teoria della «proletarizzazione» dello studente. Le due linee dell'emmelismo si confrontano a Venezia, senza risolvere il perenne conflitto fra «partito» e «movimento». A Trento entra in crisi ogni ipotesi di modernismo cattolico sostituito da un progetto di Università negativa in cui, oltre le suggestività adorniane il vetero comunismo e il marxismo si incontrano con un nuovo integralismo cattolico. Fra il 1965 e il 1967, prende le mosse, una critica serrata alla cultura «specifica» e agli specialismi considerati elementi determinanti della divisione capitalistica del lavoro. L'università, uno dei centri decisivi della nuova scienza importata dagli Stati Uniti, la sociologia, è nata sotto l'egida dei settori progressisti della Democrazia cristiana che hanno dato vita alla battaglia contro il centrismo e prospettato un'operazione culturale finalizzata alla costruzione di un moderno mito tecnocratico, capace di superare sia lo storicismo marxista sia l'idealismo di matrice cattolica. L'obiettivo è gettare le premesse per la formazione di quel moderno «operatore culturale» auspicato nella fase illuministica del centro-sinistra. Già nel corso dell'occupazione del gennaio 1966, decisa contro la presentazione del decreto che declassa la laurea in sociologia a laurea in scienze politiche ad indirizzo sociologico, si avvertono i segni premonitori del rifiuto di una formazione meramente tecnico-burocratica. Tra il 1966 e il 1967 si consuma l'esperienza legalitaria dell'università di Trento, si riconoscono i limiti e la sterilità di una lotta tutta ricondotta nelle maglie del parlamentarismo. E nell'occupazione, tra il 24 gennaio e il 10 febbraio del 1967, che si incrina definitivamente la funzione dell'organismo rappresentativo. Conclusa l'occupazione, l'agitazione si sposta sui temi dell'antimperialismo. Nel marzo è indetta una «settimana del Vietnam» con manifestazioni, dibattiti, cortei, sit-in. Nel corso di queste iniziative la polizia sgombra le facoltà schedando gli studenti. All'apertura del nuovo anno accademico, senza neppure dichiarare l'occupazione, l'assemblea generale proclama lo «sciopero attivo» e avvia la costituzione dei «controcorsi» dell'Università negativa. Il manifesto per l'Università negativa di Trento, che appare nell'autunno '67, prima della proclamazione della terza occupazione condanna l'università come luogo e «strumento del capitalismo» per mettere a punto l'«organizzazione del dominio di una classe sulle altre classi». Per questa via sofisticata e mistificata «l'apparato tecnologico» può sostituirsi «al terrore nel domare le forze sociali centrifughe e fornire alla classe sociale che ne dispone una superiorità immensa sul resto della società». L'università, al di là della presunta oggettività e neutralità della scienza, serve a produrre e trasmettere l'ideologia della classe dominante presentata come «necessaria e universale». Contro questo progetto l'Università negativa deve affermare in forma antagonistica alle università ufficiali «la necessità di un pensiero teorico, critico, dialettico che denunci ciò che gli imbonitori chiamano ragione e ponga le premesse di un lavoro politico creativo, antagonista e alternativo». L'Università negativa, con la controlezione, l'occupazione bianca, il controcorso, è il «luogo di integrazione politica e analisi critica dell'uso degli strumenti scientifici proposti» dalla classe dominante. Il movimento di Trento non sopravaluta il ruolo degli studenti, non li considera alla stregua di una classe, piuttosto, in una prospettiva di lunga durata, essi possono sollecitare e stimolare la costruzione di un «movimento rivoluzionario delle classi subalterne» in collegamento con «altre forze antagonistiche della società» . Il convegno sulle lotte studentesche, che si svolge in febbraio, mentre è in corso l'occupazione e in tutta Europa cresce l'onda montante del movimento, pone il problema di un legame fra lotte studentesche e lotte operaie che, superata la forma degli incontri verticistici fra «pochi burocrati dell'uno o dell'altro movimento», compia «un salto politico dal "collegamento" alla "convergenza" di esse, sia a livello tattico che strategico». Non altrettanto politicizzate appaiono le posizioni che emergono in altre università, solo nelle facoltà di architettura di Venezia, Milano e Torino si manifestano analogie con la significativa ricerca della facoltà di Trento sulla funzione degli «specialismi». Nelle facoltà di architettura è messo in crisi il mito tecnocratico di un operatore culturale capace di risolvere attraverso l'autonomia del suo intervento le storture del sociale e crolla ogni fiducia nella pianificazione come strumento di ricomposizione dello squilibrio capitalistico. Di fronte allo scempio del territorio, ai guasti delle grandi metropoli, al dilagare della speculazione edilizia, l'utopia razionalizzatrice della cultura urbanistica e architettonica, risulta inerme e il suo fallimento aggrava il senso di protesta e sollecita il netto rifiuto di ogni piano capitalistico e ogni presunta neutralità della scienza e della professione. A Venezia l'occupazione della primavera 1967 si prolunga per oltre due mesi. Si scontrano due linee contrapposte: la prima assume come proprio obiettivo il progetto di riforma del piano di studi, mentre i gruppi marxisti-leninisti, Tendenza e Occupazione permanente sono per un'accentuazione dei caratteri politici delloccupazione e del movimento. La spaccatura evidenzia una dialettica ricorrente nello sviluppo del movimento: l'uso politico dell'occupazione perseguito dal minoritarismo a cui si contrappone la ricerca di un'autonomia e specificità del movimento studentesco e del suo rapporto con la classe operaia. Anche se in modo differenziato, per i due gruppi marxisti-leninisti, in sintonia con altre formazioni extraparlamentari, le lotte degli studenti servono a smascherare il capitalismo e il revisionismo, a trovare un nuovo canale di reclutamento nel processo che trasforma lo studente da piccolo borghese in quadro militante. In modo particolare il gruppo di Tendenza, esprime molte assonanze con la ricerca avviata nel corso dell'occupazione di Trento, comune è la consapevolezza che la contestazione del ruolo dell' università non è separabile dalla più generale contestazione sociale. Per Occupazione permanente l'università diventa una potenziale «base rossa», l'occupazione è lo strumento di lotta per spezzare la logica del sistema e per fondare un'alternativa autogestita, libera dai condizionamenti e dai rischi di ogni possibile integrazione capitalistica . A Venezia come a Trento non si sciolgono i nodi del dibattito. II bilancio delle lotte '66/'67 contiene in nuce tutti gli sviluppi del Sessantotto. Entrate in crisi le tradizionali forze studentesche si affermano nuove leadership, molte di esse provengono dal minoritarismo o ad esso si riconducono, Potere operaio per Pisa, «Lavoro politico» per Trento, altre fuoriescono dal dissenso cattolico e di sinistra.
C. Petruccioli, Sul Vietnam ci si unisce, «Rinascita», n. 28, aprile 1967.
Cfr. G. Bini, La scuola italiana fra vecchio e nuovo, «Critica marxista», n. 5/6, 1966.
Cfr. L. Bobbio, Le lotte nell'Università. L'esempio di Torino, «Quaderni piacentini», n. 30, 1967.
Sull'occupazione dell'università di Trento cfr. Soccorso Rosso, «Brigate Rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto», Feltrinelli, 1976, pp. 26-34; «Lavoro politico», n. 2, novembre 1967.
Sull'occupazione dell'università di Venezia cfr. R. Rossanda, «L'anno degli studenti», cit. , pp. 74-91.
|
5.Le occupazioni in tutto il paese
All'apertura dell'anno universitario 1967-68 entrano in agitazione l'università di Torino e la facoltà di sociologia di Trento. In quest'ultima vengono organizzati due controcorsi: il primo sulla Rivoluzione culturale e sul pensiero di Mao (tra gli altri svolgono relazioni Mario Cannella, Filippo Coccia, Giuseppe e Maria Regis), il secondo sulla fase dello sviluppo capitalistico (sono consigliati i testi di Sweezy, Baran, Shanfield, Sylos Labini, Claudio Meldolesi, Federico e Nicoletta Stame). Protagonisti dell'occupazione sono personalità molto diverse fra loro, le cui biografie politiche e teoriche si separeranno nel labirinto dell'estremismo italiano: Marco Boato, Mauro Rostagno, Renato Curcio. Fatto totalmente nuovo nella storia del movimento universitario, il 18 novembre è occupata l'Università cattolica di Milano. La scintilla è offerta dall'aumento delle tasse, ma partendo da questo oggettivo pretesto gli studenti si pongono la domanda di fondo «a che serve la Cattolica?» e chiedono il controllo sui bilanci e sui programmi universitari. Si risponde con la repressione. Il rettore chiama la polizia: 32 studenti sono espulsi dal collegio, 3 sono espulsi dall'università, 150 sono sospesi. L'agitazione prosegue. A Torino, il 27 novembre, è occupato Palazzo Campana: gli studenti della facoltà di lettere contestano radicalmente i contenuti dell'insegnamento, il criterio degli esami, il rapporto tra studenti e docenti. Sembra esistere ancora lo spazio per una rifondazione dell'università e del suo ruolo, ma ben presto ogni tentativo in tal senso risulterà vano e inadeguato di fronte alla qualità della domanda politica che esprime la gran massa degli studenti, una domanda tutta protesa verso un nuovo orizzonte ideale. Proprio questa dilatazione degli obiettivi spiega il groviglio di contraddizioni che viene dipanandosi e il rapido consumo dei controcorsi e delle varie commissioni di lavoro che nascono all'interno delle facoltà occupate. Le discussioni non vogliono isterilirsi nel proprio specifico né nell'asfissia di un controcorso; tutto sembra avvitarsi per tornare al nodo di fondo: la lotta anticapitalistica, la lotta contro il sistema, il desiderio di una rivoluzione politica, morale e culturale. Un'ansia percorre la nuova generazione, la voglia di un modo nuovo di far politica che è tutt'uno col rifiuto del partitismo istituzionale, del «sistema», considerato come prigione normalizzante, come autoritarismo mascherato di democrazia; un rifiuto generalizzato e totale che rappresenta l'altra faccia di una diffusa paura del capitalismo, delle sue insidie e delle sue false libertà. Si susseguono le occupazioni: il 29 novembre, la facoltà di lettere e filosofia di Genova; il primo dicembre a Pavia le facoltà di fisica e lettere; lo stesso giorno a Cagliari, lettere, filosofia e magistero; il 4 dicembre è la volta di Salerno; a Napoli l'agitazione si estende a tutto l'ateneo; l'11 dicembre si occupa a Sassari; a Padova, il 15 dicembre, lettere, filosofia, scienze politiche, fisica, magistero; il 17 dicembre scioperano tutti gli studenti universitari e gli studenti medi; architettura di Torino è occupata il 18 dicembre, sarà sgombrata dalla polizia, chiamata dal rettore, il 27 dicembre . Con l'obiettivo di unificare e coordinare il movimento, a Torino 1'8 gennaio 1968, si svolge il convegno dei comitati di agitazione. Partecipano: Milano, Torino, Pavia, Napoli, Venezia, Pisa, Bari, Roma, Modena, Siena, Trento, Genova, Cagliari. E il primo della serie dei convegni politici dei quadri del movimento in lotta, seguiranno il convegno di Trento nel febbraio, quelli di Milano, Roma, Firenze e Venezia nel marzo e infine, a giugno, il convegno operai-studenti di Trento, a cui parteciperanno i segretari nazionali dei sindacati metalmeccanici Bruno Trentin e Luigi Macario . Attraverso la forma del convegno dei quadri si tenta il collegamento fra le occupazioni, evitando così i rischi di una gestione spontaneistica e atomizzata del movimento. Si vuole colmare il vuoto di dirczione politica, conseguenza del superamento del sistema delle rappresentanze e della crisi delle associazioni universitarie, senza tuttavia prefigurare nessuna direzione burocratica sul movimento, ma piuttosto cercando una sede di confronto e di dibattito per «promuovere un processo di progressiva omogeneizzazione strategica del movimento studentesco a livello nazionale». L'andamento dei vari convegni dimostra la complessità di tale obiettivo; le molte diversità ostacolano la ricerca di ogni possibile convergenza. Peraltro gli stessi convegni spesso mancano di valore rappresentativo e sono scavalcati dalla pratica delle occupazioni e della dinamica del movimento. Tuttavia rappresentano un indicatore utile per comprendere lo sviluppo delle varie elaborazioni e il nascere di quella dirczione politica che formerà lessatura portante dei gruppi. Il convegno di Torino non riesce a chiudersicon una mozione unitaria. Il confronto si attesta attorno a tre diverse posizioni: la linea del potere studentesco espresso dall'esperienza di Palazzo Campana; le tesi marxiste-leniniste di Napoli e Venezia e l'operaismo di Pisa, diretta emanazione delle Tesi della Sapienza. In assenza di un punto di unificazione, in questa fase il movimento torinese acquista una funzione egemonica. Rovesciata la logica delle Tesi della Sapienza, si sospende il giudizio sul tema della «forza lavoro in formazione». Non importa sapere quello che lo studente sarà: si parte dall'interno della condizione studentesca per aggredire i meccanismi della scuola, espressione della coercizione sociale e dell'autoritarismo delle istituzioni capitalistiche. La lotta è «contro l'università», contro quella sua «struttura interclassista» che «nonostante il diverso trattamento che riserva ai diversi strati, si presenta a tutti gli studenti come un meccanismo di promozione sociale neutrale rispetto alla provenienza di classe, svolge un ruolo insostituibile come strumento di integrazione sociale e come mezzo per istituzionalizzare l'ideologia della stratificazione sociale continua (ad ogni titolo di studio consegue l'appartenenza ad un determinato strato sociale)» . Gli studenti torinesi, come risulta dai documenti del loro comitato di agitazione, conducono un'analisi molto dettagliata della condizione studentesca . Molte delle categorie interpretative sono riprese da Lettera a una professoressa, anche se arricchite da passaggi sociologici e di generica provenienza marxista. L obiettivo è demistificare la neutralità dell'università e della didattica. Si dilata il campo di osservazione: non interessa più il ruolo professionale, ma la totalità dell'istituzione come strumento di classe e di normalizzazione. Entra in crisi la stessa idea di progresso ed è sottoposta a critica la cultura come trasmissione dell'ideologia dominante. Da questo presupposto muove l'indagine puntigliosa sui diversi atteggiamenti e destini della popolazione studentesca. Alcuni usano l'università «come base di lancio verso il conseguimento di posizioni di potere nella struttura sociale»; altri «la subiscono come una fase necessaria attraverso cui bisogna passare per andare ad occupare una condizione sociale predeterminata nella fìttizia gerarchla di una mistificatoria stratificazione sociale»; e infine altri ne sono «oppressi (in quanto essa funziona come strumento di legittimazione della loro posizione sociale subordinata)» . Per questo «all'università entrano in molti ed escono in pochi. Escono innanzi tutto quelli per i quali la collocazione professionale in una posizione dirigenziale è già garantita dalla situazione sociale della famiglia di provenienza» per costoro prendere la laurea «è una cosa scontata». Ma dall'università escono anche «quelli che riescono a raggiungere la laurea senza aver mai brillato negli studi». «Per loro la carriera non esiste» e saranno destinati al grigiore degli «scatti di anzianità». Poi ci sono quelli che non trovano lavoro perché «il posto di lavoro, quel certo posto di lavoro, poi, non c'è per tutti». Ormai vi è un forte squilibrio fra lauree e posti di lavoro privilegiati a cui esse dovrebbero consentire l'accesso. I laureati «più di tanti non possono essere, gli iscritti ali' università sono molti di più: per questo l'università deve selezionarli». «Il primo e fondamentale criterio di selezione è di carattere economico: studiare e mantenersi agli studi costa. L'università non fornisce aiuti economici ai suoi iscritti che in misura risibile. Chi proviene da famiglie non abbienti, per mantenersi agli studi deve lavorare. Gli studenti lavoratori, specie nelle facoltà di economia, magistero, lettere, e filosofia, costituiscono ormai la maggioranza della popolazione universitaria. A matematica, fisica, legge, architettura la loro percentuale cresce continuamente» . Lo studente lavoratore non solo è sottoposto allo sfruttamento del lavoro, ma, subisce le frustrazioni di un' università che non può frequentare, la solitudine dello studio individuale rispetto ai suoi compagni più privilegiati: è un «paria» nel posto di lavoro e nell'università. Gli esami sono la forma fenomenica sotto cui l'università si presenta allo studente lavoratore: un poliziotto denominato per l'occasione docente, che in 5-10 minuti liquida l'imputato con una serie di domande». Il docente esercita il ruolo che gli è stato assegnato dal sistema e attraverso l'esame realizza la selezione di classe, peraltro già sancita dalla provenienza sociale dello studente: nascosto dietro le mistificazioni egualitarie del diritto allo studio e di una promozione sociale falsamente democratica, ripristina le gerarchle dell ordine capitalistico. «Così sotto le false spoglie di una selezione culturale e scientifica, si attua in realtà una selezione sociale. Dopo due, tre bocciature agli esami, si smette di studiare, si rimanda di sessione in sessione il prossimo esame, finché ci si accorge che è inutile continuare a pagare le tasse per dare lo stipendio a quel professore che continua a bocciarti. Chi è più perserverante, si fa incastrare per un numero superiore di anni. Solo pochi riescono a farcela per essere di perpetuo esempio a tutti gli altri che non ce la faranno mai perché continuino a credere che la scuola è uno strumento di promozione sociale» . Andando oltre la denuncia delle baronie universitarie del potere accademico, il movimento torinese individua la «radice dell'autoritarismo» non solo nelle strutture istituzionali ed economiche ma «in primo luogo nel consenso da parte di coloro che il potere lo subiscono». Si tratta, dunque, di spezzare la manipolazione del consenso che frantuma le aspirazioni collettive degli studenti, che divide e indebolisce il movimento. Per questo bisogna scardinare tutti gli strumenti di cui dispongono le autorità accademiche per imporre il controllo degli studenti . Alla base della speranza di una rifondazione dell'università vi è il rovesciamento del rapporto fra docenti e studenti. Il maggiore strumento di controllo, la base politica del potere accademico dei professori è «la collaborazione degli studenti». «Senza la collaborazione degli studenti, un professore non è nulla. E questo il nodo politico della nostra lotta, è questa la constatazione da cui dobbiamo partire per impostare una lotta che possa infine portarci ali' instaurazione di una didattica in cui professori e studenti lavorino in base a rapporti tra eguali e non in base a rapporti tra signore e suddito» . Le commissioni di studio sembrano essere ancora lo strumento di «contestazione del potere accademico». Ma a Torino, come in tutte le altre facoltà, la dinamica occupazione-repressione interromperà ogni possibile sperimentazione. Concorre a vanificare il lavoro delle commissioni la progressiva politicizzazione del movimento e la ricerca di collegamenti sempre più ampi con la generalità della lotta di classe, in sostanza raffermarsi della rivolta studentesca come movimento politico. Nel lavoro delle commissioni si sottopone a critica la cultura tradizionale, la sua separazione dai problemi politici, la ricerca come «ricerca di se stessa». In particolare si guarda ad argomenti esclusi dall'insegnamento universitario. Nascono così, nel vivo dell'agitazione di Torino, le commissioni: «Psicanalisi e repressione», che affronta i rapporti fra civiltà e repressione (bibliografia consigliata i testi di Freud, Malinowski, Jones, Marcuse, Adorno, Fromm e Reich); «Funzioni e compiti della filosofìa»; «Filosofìa della scienza» sostituita poi da «Sociologia della ricerca scientifica»; «Scuola & società»; «Vietnam»; «America Latina». Ma «ben presto ci si accorge che i libri sono altrettanto autoritari dei docenti» . La commissione «Scuola & Società» vota una mozione in cui si proibisce ai partecipanti di usare i libri nei propri lavori. Si contesta l'istituzione libro, il rito capitalistico dell'accumulo del libro, la vecchia e autoritaria cultura libresca: «Al posto degli altari familiari ai Lari paterni di tradizione romana, le nuove leve del capitalismo si costruiscono in casa degli altari denominati libreria, o addirittura delle cappelle denominate studio, dove il feticcio libro troneggia incontrastato contento di sottoporsi all'adorazione privata» . La cultura viene demistificata, denunciata per i suoi caratteri di trasmissione dell'ideologia dominante, di funzionalità economica al sistema, per il suo autoritarismo. Sull'onda della parola d'ordine maoista «Contro la cultura libresca», si spinge verso un'ideologizzazione della pratica-movimento tutta proiettata verso una dimensione esistenziale della politica. Lo sviluppo dell'occupazione torinese dimostra il complesso rapporto fra dirigenza e base. Ormai esiste una pluralità di soggetti decisionali, la gran massa degli studenti vuole contare e mette in crisi ogni leaderismo di retroguardia, di fronte a incertezze o prudenze ci si autoconvoca, si autodecidono le occupazioni e le altre forme di lotta. Tra l'inizio dell'anno accademico e il 10 gennaio, giorno dello sgombero di Palazzo Campana ad opera della polizia, si realizzano tré occupazioni. La loro dinamica, gli errori che si compiono, dimostrano l'eccezionalità della lotta che si è aperta e come l'insieme del movimento sia ormai giunto a un radicale salto di qualità. All'intervento della polizia i quattrocento occupanti rispondono con la resistenza passiva e con lo sciopero bianco. Le elaborazioni delle varie commissioni dell'occupazione torinese non riescono a trovare una sintesi nella Carta rivendicativa, finalizzata a una ristrutturazione dello studio universitario. Nel documento si esprime la prospettiva del controllo studentesco sulla formazione culturale e professionale da cui originerà la parola d'ordine «potere studentesco». Si è ancora a un punto di congiunzione con le precedenti occupazioni, un precario equilibrio fra la fondazione di un nuovo ruolo dell'università e una contestazione radicale e generalizzata. Fra l'analisi del movimento torinese e la Carta rivendicativa sembra mancare un'organica consequenzialità, i nessi appaiono piuttosto meccanici e spesso sovrapposti. Peraltro ogni ipotesi di «ristrutturazione dello studio universitario» si scontrerà con la repressione del potere accademico e dello stato, con il conservatorismo delle strutture universitarie e dei docenti, con le inerzie delle forze politiche. Le proposte di Costituente studentesca avanzate dalla Fgci sembrano reperti archeologici confrontate con la carica ribellistica e di impegno globale di una generazione che vuole e si sente protagonista di una appassionante ed utopica stagione di lotta. Tutto il sistema di potere è sotto accusa e la stessa gruppettistica risulta arretrata rispetto alla rivolta delle masse studentesche. Se ne ha una riprova nel conflitto non risolto al convegno di Torino fra movimento, gruppi operaisti e marxisti-leninisti. In quella occasione, come in tutto l'andamento delle lotte universitarie, si manifesta quella conflittualità che sarà permanente fra specificità e autonomia del movimento e formazioni dell'estremismo. Una conflittualità che, in modo dialettico e nelle reciproche interferenze, agirà come motore interno delle lotte, tenderà alla loro progressiva socializzazione e ad uno spostamento degli studenti verso il lavoro politico. Il successivo convegno si svolge il 6 febbraio a Trento, mentre è in corso la terza occupazione della facoltà di sociologia e in tutto il paese le università sono in agitazione. Contrariamente a quanto è accaduto a Torino, si riesce ad approvare una mozione unitaria che rappresenta un deciso spostamento in avanti rispetto alla Carta rivendicativa . Ormai è netta la consapevolezza della necessità di superare ogni frammentazione e settorialismo, attraverso la rivendicazione e la conquista di obiettivi sempre più avanzati e generalizzabili. La mozione conclusiva pone la questione della convergenza tattica e strategica «fra lotte operaie e lotte studentesche». La rivendicata autonomia del movimento non è separazione o un generico «collegamento», magari ricomposto dalla revisionistica politica delle alleanze sociali, ma deve esprimere una nuova dimensione dello scontro in una globalità dell'azione rivoluzionaria. Il movimento trentino innesta sulle analisi torinesi una forte caratterizzazione politica, le tipicità dell'esperienza dell'Università negativa si fondono con la ricerca sulla condizione studentesca in un movimentismo teso a produrre un radicale rovesciamento della precedente tradizione politica. La parola d'ordine «Potere studentesco» sconfina dal suo originario significato ed evoca un ruolo politico dello studente e del movimento. Nelle giornate di occupazione nascono nuove aggregazioni, nuovi moduli organizzativi, nuove forme di lotta, il tutto nella fluidità di un movimento di rivolta in cui si sedimentano, si accumulano ed esplodono speranze, illusioni, nuove conoscenze individuali e collettive. La lotta, funziona da valvola di sfogo di nodi teorico-politici irrisolti, autoesalta e al tempo stesso produce un ulteriore salto di qualità. E la risposta alla repressione, è l'occasione per unificare le molte diversità, è rincontro fra avanguardie e totalità degli studenti. A Trento come a Palazzo Campana i tentativi di far saltare dall'interno i meccanismi coercitivi dell'università, si dimostrano impraticabili, i «controcorsi» e le commissioni di studio rimangono forme elitarie di coinvolgimento, separate dalla gran massa di studenti che chiedono di partecipare, di stare nelle piazze, di essere «movimento». Non bastano più le ipotesi di Università negativa, né le tesi del sindacato studentesco: si è di fronte a un nuovo e originale movimento politico. Il partire dalla condizione studentesca, il tenere conto del dato soggettivo, servono a coinvolgere l'insieme della popolazione studentesca, a rompere barriere ideologiche precostituite, a mobilitare forze non ancora impegnate nella lotta politica. Lo studente vive nella scuola tutte le conseguenze della divisione della società in classi, nell'istituzione scuola, nella trasmissione del sapere si riflettono, al di là di ogni mistificazione, tutte le contraddizioni del sistema. Alla gran massa degli studenti si svela il fine ultimo della scuola: «organizzare il consenso per la società e il tipo di rapporti sociali che in essa si sviluppano» . Denunciati i nessi fra i meccanismi formativi e selettivi, la critica si estende al sistema e ali' università come anello decisivo della continuazione dell'ordine capitalistico. In questo senso l'antirevisionismo del movimento studentesco è la risposta all'idea di una rivoluzione possibile, una rivoluzione già potenzialmente in atto, una rottura con la democrazia borghese e col parlamentarismo. Progressivamente si ridurrà il tempo per ogni riflessione, il crescere della rivolta esige la partecipazione, si deve stare da una parte o dall'altra: o con l'opposizione, quella della sinistra ufficiale considerata ormai integrata, socialdemocratica, revisionista; o con la rivoluzione, per lo scontro risolutivo. Questo salto che nega l'obiettivo parziale, la fase intermedia del gradualismo, non è schematismo di analisi, ma generalizzata volontà di ridefinire la politica. Su «Quaderni piacentini», nel luglio 1968, Carlo Donolo scrive: «II movimento studentesco ha sviluppato, in misura diversa e con riflussi e contraddizioni, alcune caratteristiche, che oggi fanno parte della sua definizione. Nel loro complesso designano un modo nuovo di fare politica ed anche di definire che cosa sia la politica. Una prima caratteristica e la tematica iniziale: l'autoritarismo. In questo termine sono condensate diverse intuizioni sociologiche e politiche. Esso si riferisce in primo luogo alla struttura di potere nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, non legittimata funzionalmente e giustificabile solo con posizioni di interesse materiale. In secondo luogo, si riferisce dal lato passivo alla violenza più o meno mediata esercitata sui soggetti subalterni nei loro diversi ruoli sociali, compresa la repressione internalizzata, specialmente familiare. Infine si riferisce al clima politico-culturale generale della società in fase di razionalizzazione, che non è disposta a tollerare la soddisfazione di bisogni diversi da quelli che essa impone» . La nozione di autoritarismo, in questo aggiornamento, comporta un'estensione che supera il tradizionale concetto di sfruttamento di classe, permettendo «di coinvolgere in un discorso eversivo anche i gruppi sociali relativamente privilegiati ma subalterni, ai quali il sistema non sottrae tanto plusvalore quanto potere di autodeterminazione e possibilità di emancipazione» . Rivivono nelle elaborazioni e nella lotta del movimento studentesco le teorizzazioni mutuate dal sociologismo della scuola di Francoforte. Il percorso culturale che dalla dialettica dell'illuminismo di Adorno approda al marcusismo, si dialettizza con la rivisitazione del pensiero del movimento operaio, dal leninismo al maoismo. Da queste prismatiche combinazioni nascono le rifrangenze e le deformazioni, quelle continue interferenze culturali, che formeranno il labirinto teorico del gruppismo. La sopravvivenza di «concezioni tradizionali della politicizzazione, riprese dal movimento operaio o dalla prassi dei gruppetti» rappresenta ancora un ostacolo alla piena autonomia del movimento e porta alla convivenza nello stesso di pratiche non esenti da autoritarismi. Un limite che si ritroverà nella vita interna delle varie formazioni minoritarie sempre oscillanti fra il modello partitico e la sua negazione. L'acquisizione di una coscienza antiautoritaria è il punto di origine fondamentale di una nuova figura di militante; esso si forma nella pratica del movimento e le sue contraddizioni irrisolte lo porteranno, nella fase di riflusso, a fuoriuscirne alla ricerca dell'organizzazione e nella speranza di una risposta più organica e di uno sperimentalismo meno informe e magmatico.
Per la cronologia del movimento cfr. S. Travaglia, «Cronache '68/69. Materiali di controinformazione», Bertani, 1978; per i documenti delle varie occupazioni cfr. «Documenti della rivolta universitaria», a cura del Movimento studentesco, Laterza, 1968
M. Boato Unità e diversità del nuovo ciclo di lotte del movimento studentesco del '68, in M. Boato, «II '68 è morto, viva il '68», cit., pp. 150-160.
G. Viale, Contro l'Università, «Quaderni piacentini», n. 33, febbraio 1968.
I materiali dell'occupazione torinese furono riportati in un numero speciale di «Quindici» (n. 7, 15 gennaio 1968). Il fascicolo, diffuso in venticinquemila copie, rappresentò un'importante veicolo di diffusione delle tesi torinesi.
Cfr. Sul diritto allo studio, in «Documenti della rivolta universitaria», cit., pp. 272-299.
Cfr. Didattica e repressione, ibidem, pp. 261-271, .
La mozione conclusiva di Trento è pubblicata in: «Documenti della rivolta universitaria», cit., pp. 73-78; «Università: ipotesi rivoluzionaria», cit. , pp. 32-37.
II potere operaio, «Relazione sulla scuola», Libreria Feltrinelli, 1968.
C. Donolo, La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco, «Quaderni piacentini», n. 35, luglio 1968.
|
6. Potere operaio, Potere studentesco
«Potere operaio», «Potere studentesco» sono slogan ricorrenti nelle manifestazioni studentesche; la parola chiave che li accomuna è «Potere». Essi sono usati indistintamente, e non tutti padroneggiano fino in fondo le elaborazioni che sottintendono. Eppure nella dialettica fra queste due nozioni si spiega tanta parte delle dispute interne al movimento; le teorie e le pratiche che si fronteggeranno e che si rincontreranno nei partiti dell'estremismo post-sessantottesco. La ricerca di nuove forme organizzative non è separabile dai temi di strategia in cui si dibatte il movimento. Liberatosi, momentaneamente, dallo stereotipo minoritario della fondazione di un nuovo partito rivoluzionario, il movimento pur marginalizzando le formazioni di gruppismo, ne subisce l'egemonia teorica e ne fa proprie, le variegate tipologie di intervento politico. Esaltando la sua specifica ed autonoma proiezione politica, il Movimento studentesco finisce per porsi di per sé come forma di una milizia politica complessiva. Nel corso delle lotte si assiste alla metamorfizzazione dei gruppi; essa si manifesta nei passaggi cruciali come capacità di orientamento ideologico e insieme come risposta organizzativa contrapposta alla fluidità del movimento. La sua ramificazione sul territorio nazionale rappresenterà il principale supporto logistico e la condizione delle osmotiche fluttuazioni e delle continue trasmigrazioni da gruppo a gruppo. Per tutta una prima fase i marxisti-leninisti risultano esterni al movimento, anche se meritano considerazioni a parte l'esperienza veneta e quella romana e va tenuto conto del generale influsso della Rivoluzione culturale cinese. Il gruppo che con più autorevolezza si contrappone alla linea di «Potere studentesco», che può essere assunta come linea del movimento, è quello del Potere operaio pisano. Con l'esplosione sessantottesca, sviluppando l'elaborazione legata alleTesi della Sapienza, il gruppo precisa ulteriormente le sue posizioni operando un netto rifiuto di ogni ipotesi rivoluzionaria sovrapposta alla realtà studentesca. Il documento più organico in tal senso è La relazione sulla scuolapubblicata nel maggio. Si radicalizza l'impostazione che aveva caratterizzato la fase delle Tesi, che, come giustamente sottolinea Rossana Rossanda, interne a «una rielaborazione della tematica classica del Movimento operaio» considerando lo studente come «figura sociale impura ai margini del processo di valorizzazione» approdavano alla necessità del sindacato studentesco a livello nazionale» . Il gruppo pisano non solo respinge ogni prospettiva riformistica ma tutte quelle posizioni che «utilizzano le lotte studentesche solo per formare quadri per una lotta politica generale», e quindi non tengono conto della specifica violenza rivoluzionaria della lotta contro la scuola, dove «come in ogni angolo della terra si svolgono violenti conflitti di classe a livello materiale e ideologico». È compito del gruppo inserirsi attivamente in questo «scontro con la forza e l'ideologia rivoluzionaria» . Questa presenza deve caratterizzarsi come costante denuncia del «carattere aggressivo delle operazioni culturali condotte nella scuola» e saper avanzare piattaforme rivendicative capaci di difendere gli studenti dagli attacchi della classe dominante, tali da suscitare una loro progressiva mobilitazione rivoluzionaria. Solo congiungendo questi due elementi la lotta supera il ristretto ambito scolastico per divenire lotta anticapitalistica e, non separandosi dalle reali condizioni degli studenti, produce un livello superiore di «reclutamento di forze per la lotta rivoluzionaria». La polemica si incentra sulla parola d'ordine del «potere studentesco». Nella prima fase dell'esperienza torinese, lo slogan vuole significare la riappropriazione da parte degli studenti della gestione della propria formazione culturale e professionale e degli strumenti di critica rispetto al ruolo professionale. Ma questa prospettiva «non incide nel mercato del lavoro ne può modificare i rapporto di produzione e della divisione del lavoro imposti dal regime capitalistico nel quale lo studente si troverà inserito», in quanto «la questione del potere si pone in modo realistico solo a livello delle strutture generali della società» . Dunque, per il gruppo pisano, la parola d'ordine è scorretta se per «Potere studentesco» si vuole rappresentare «l'organizzazione nella scuola di un movimento di ribellione, di senso, di azione contestativa permanentemente contrapposta alle strutture ufficiali del potere». Non si avrebbe così alcun «potere» per gli studenti che rimarrebbero prigionieri del potere ufficiale e «dell'organizzazione capitalistica, cioè della divisione del lavoro, che nella scuola tiene rigidamente separato lo studio dall'attività produttiva» . La polemica è molto forzata e paradossalmente il gruppo finisce col contraddire le proprie affermazioni e il riconoscimento compiuto nella suaRelazione sulla scuola. La natura del dissenso va oltre le esplicitazioni teoriche, incardinandosi attorno alla questione del salario generalizzato. Secondo Potere operaio, come risulta dal Documento sul salario elaborato e discusso nella Sapienza occupata nei giorni 20 e 21 febbraio 1968, la crescita del movimento studentesco pone la necessità di una piattaforma rivendicativa tale da determinare un collegamento con altri strati sociali. In tal senso «la proposta di salario generalizzato è in grado di mobilitare gli studenti operai e lavoratori, i lavoratori dipendenti con figli in età scolastica, i giovani lavoratori esclusi dalla scuola e confinati violentemente nel ruolo di sfruttati economicamente, e di inferiori culturalmente». Sullo stesso tema ritorna il gruppo Strumenti di classe di Milano che, polemizzando nel corso dell'occupazione della Statale con «gli amici del potere studentesco», lancia la proposta di un milione annuo per studente. E un modo, sostiene, attraverso il quale il «ceto studentesco» si può trasformare in uno «strumento anticapitalistico». Non importa la credibilità dell'obiettivo: anzi proprio per il suo carattere provocatorio è l'unico possibile «non dal punto di vista del mantenimento del sistema» ma da quello «della sua eversione e della sua distruzione». Un procedimento analogo si ritroverà nell'intervento di Potere operaio davanti alle fabbriche: una logica che non ha più niente a che fare con l'originario economicismo e che si pone unicamente come «strumento formale» di «aggressione critica e negativa» al sistema. Si esaspera l'irrazionalismo dell obiettivo per contrastare la presunta razionalità capitalistica. Il momento più alto del confronto fra le due linee si sviluppa nel vivo dell'occupazione torinese. Vittorio Rieser considera la logica che guida la proposta del salario generalizzato un'ingenuità tattica così come «la ricerca di obiettivi apparentemente immediati, che in realtà invece non sono attuabili se non con un rivolgimento dell'intero sistema». «A volte», prosegue, « tale ricerca è semplicemente un tentativo non riuscito di rendere "più realistica" una linea che oggettivamente, al momento attuale, non può esserlo. Ma altre volte essa è teorizzata esplicitamente: la lotta concentrata su obiettivi specifici, immediati, ma non realizzabili è vista come l'unico mezzo per mantenere uno stato di tensione continuo» . La critica mossa dal leader torinese non è metodologica ma riguarda le finalità di collegamento con la classe operaia che si vorrebbero raggiungere attraverso il salario generalizzato. L'irrealizzabilità dell'obiettivo non solo non rappresenta uno strumento di mobilitazione ma «rinvia al problema più generale della lotta rivoluzionaria». Se questo è il punto allora è «più utile che il movimento si impegni più direttamente sui temi della lotta operaia di oggi, anche se specificamente sindacali, e cerchi con la massima flessibilità di impostazione organizzativa di far scaturire da essi un dibattito politico di maggiore portata» . Il Potere operaio toscano, commentando le posizioni torinesi, replica respingendo ogni strumentalismo della proposta e rivendicando, come unico metro per giudicare la validità del salario generalizzato, «quello di vedere se corrisponde o no alle esigenze delle masse e non se il capitalismo lo può o non lo può sopportare» . La polemica, come è evidente, va oltre il significato rivendicativo dell'obiettivo proposto e investe direttamente la natura del movimento studentesco. Oreste Scalzone, del gruppo romano di «Classe operaia» scrive: «II compito che spetta al movimento studentesco è quello di svolgere un lavoro politico eversivo. E lavoro politico eversivo significa scontro con il sistema». Il gruppo romano considera infatti la proposta del «salario generalizzato» un obiettivo capace di far saltare il sistema. Più oltre Scalzone affronta l'essenza del contrasto: «La discriminante resta quella leninista dell'organizzazione. Vale a dire, l'organizzazione della violenza del proletariato contro la violenza della borghesia. Vale a dire, rifiuto di ogni carattere estemporaneo della lotta. La norma leninista è l'esatto contrario dello spontaneismo, è la riaffermazione del primato della politica, dell' organizzazione politica della lotta di classe» . In sostanza i gruppi dell'area operaista considerano la tesi di Rieser secondo cui gli studenti devono entrare nel merito delle lotte operaie una «semplice proposta di controcorso culturale» in cui la condizione operaia è ridotta a mero «oggetto di osservazione», e manifestano una profonda sfiducia sul carattere eclettico che il movimento verrebbe ad assumere se prevalesse la linea del potere studentesco. Il documento di Potere operaio riportato su «Nuovo impegno», pur prendendo atto del valore dell'impostazione torinese, sviluppa un forte attacco allo spontaneismo di Bobbio e Viale, giudicandolo «un valido appoggio alla strumentalizzazione degli opportunisti (vedi la politica del Psiup rispetto alle lotte studentesche)». Al contrario attribuisce il compito di stabilire collegamenti permanenti con la classe operaia a un'«avanguardia politica» della quale il movimento studentesco è una parte: «quando parliamo di collegamento con gli operai parliamo di intervento politico e questo lo facciamo non come studenti ma come militanti rivoluzionari». In questa operazione politica si vuole utilizzare il potenziale rivoluzionario che è in grado di esprimere il movimento studentesco, considerato come fondamentale serbatoio di militanti, ma spetta all'avanguardia garantire una dirczione strategica capace di realizzare l'unifìcazione delle lotte: «In effetti, se il movimento studentesco può svolgere nel contesto nazionale ed europeo delle lotte politiche, esso è di rompere il panorama di stagnazione politica, di funzionare da base di appoggio di un movimento rivoluzionario di più vasta portata, come gli avvenimenti francesi dimostrano. Oggi le distanze tra gli studenti e le masse sfruttate sono diminuite: nonostante gli sforzi dei sindacati per mantenere il distacco e la differenza, il movimento studentesco gode di credito tra le masse per il coraggioso contributo di lotte che esso ha dato. Presentandosi alle masse come protagonisti di questa esperienza di lotta e traducendola in proposte politiche più generali, gli studenti sono bene accolti, e viceversa una penetrazione anche solo a livello di opinione tra le masse popolari si traduce in concreto appoggio al movimento per fronteggiare la repressione e i più vasti compiti politici di domani» . Per Potere operaio spetta all'avanguardia politica garantire una dirczione strategica capace di realizzare l'unificazione delle lotte. E questo il valore della proposta del salario garantito, un obiettivo che raccorda la lotta degli studenti, senza separarli dalla loro condizione specifica, alle lotte più generali. Ma al di là dell'indicazione del salario agli studenti, il dibattito ruota attorno alla necessità e alle caratteristiche di un'ambiziosa convergenza strategica con la classe operaia. Prefigurando i termini di un contrasto tipico tra le organizzazioni dell'estremismo postsessantottesco, l'alternativa è tra un movimento studentesco che autonomamente determini le condizioni di questo incontro e la costruzione di una nuova avanguardia politica, capace di proporre obiettivi unificanti sia per gli studenti che per la classe operaia. Da ciò l'accanita polemica sullo spontaneismo e contro chi, come Rieser, teorizza una sorta di crescita del movimento per vie interne e la definizione dei contenuti dell'intero moto rivoluzionario partendo dalle esigenze poste dalla base degli studenti e dalle loro rivendicazioni. Il reclutamento fra gli studenti è affermato con spregiudicatezza nel documento-programma sulla scuola di Potere operaio: «L'importanza rivoluzionaria del movimento proviene proprio dal riconoscimento del carattere classista dell'autoritarismo e dal porsi coscientemente sul terreno della lotta di classe per abbattere la fonte prima di ogni autoritarismo sociale: il capitalismo. In questo senso, man mano che il movimento si radicalizza, gli elementi di avanguardia sono portati a compiere scelte sempre più rivoluzionarie e sempre più coscienti nella direzione dell'abbattimento del sistema: questi elementi sono l'avanguardia della lotta e ne costituiscono l'elemento portante, che da continuità e permanenza al movimento. Questi elementi noi li chiamiamo proletari, anche se non è tale la loro origine di classe ma per l'ideologia che sono portati necessariamente a fare propria, in seguito anche a precise scelte di carattere materiale» . Dal costante proiettarsi verso l'intera società nascono gli interrogativi sullo sbocco generale della lotta e su come sia possibile esercitare un ruolo senza subire la mediazione riformista. In quei mesi per molti studenti la scelta di una più complessiva militanza politica diventa imperativa: la carica rivoluzionaria va trasmessa ad altri strati sociali e in particolare a una classe operaia ormai adagiata nelle regole e nell'ordine capitalistico. Al di là delle varie interpretazioni che si danno della proposta del salario generalizzato e lo sviluppo di una disputa non esente da formalismi nominalistici e da arroganze di gruppo, non c'è dubbio che attraverso questa discussione si supera ogni approccio riformistico alla tematica del «diritto allo studio», proiettandola in una visione globale del processo rivoluzionario. La necessità di un rapporto strategico con la classe operaia, tema posto sin dal convegno di Trento, stenta a trovare una sua esplicitazione, e non va oltre la «pratica politica» davanti alle fabbriche, in sostanza un agire da «partito» che per lo più riguarda e trova disponibili studenti già politicizzati. Sin dai primi mesi del 1968, a fianco della lotta studentesca, si consolida il lavoro dei gruppi operaisti davanti alle fabbriche: un intervento che mantiene una sua specificità ed entra in concorrenza rispetto all'autonoma presenza del Movimento studentesco . Le grandi aziende del Nord sono il principale banco di prova: vi è già una storia di dissenso operaio ed esse sono state al centro dell'analisi delle riviste degli anni '60. La vertenza alla Fiat che si concluderà nel maggio, la lotta dei chimici di Porto Marghera, la Pirelli e la lotta per l'abolizione delle gabbie salariali dell'autunno-inverno, saranno, nel manifestarsi di nuove tensioni operaie e delle difficoltà di tenuta del vecchio sindacato, altrettante occasioni per sperimentare forme di presenza, momenti di confronto fra varie linee dell'estremismo. La diversità delle parole d ordine, «potere studentesco-potere operaio», non annulla il comune giudizio critico sul ruolo delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, anzi ancora più drastico delle affermazioni delle Tesi della Sapienza è l'accenno al sindacato studentesco contenuto nella riflessione di Bobbio sulle lotte studentesche torinesi. Partendo dalla «social-democratizzazione delle organizzazioni politiche del movimento operaio», Bobbio prospetta una sorta di «sindacato, inteso come organizzazione e espressione degli studenti in lotta, che non ha alcun rapporto con la rappresentanza ufficiale e anzi ne rifiuta gli stessi principi di unicità e rappresentatività». Nell'incontro con le tesi dell'Università negativa di Trento si precisa l'obiettivo della costruzione, attraverso «una nuova metodologia politica», di un «movimento politico di massa». Da questo presupposto il collegamento con le lotte operaie rivendicato dalla mozione conclusiva di Trento e al tempo stesso le diverse accentuazioni che guidano le letture di Rieser e Rostagno sono riconducibili alla qualità e ai modi dell'allargamento dello scontro sociale. Nella vertenza contro la Fiat per le 44 ore, che si protrae dal dicembre '67 al maggio '68, si confrontano le posizioni del gruppo toscano di Potere operaio, che cerca di estendere la sua area di influenza, e quelle del movimento studentesco di Bobbio e Viale, in cui convergono i resti dei «Quaderni rossi», quest'ultimi reduci da un'ulteriore scissione che ha visto sorgere a Torino la Lega studenti operai, con un suo modesto prolungamento a Milano. Gli studenti sono insieme agli operai davanti alla fabbrica, nei picchetti, nel volantinaggio, nell'azione quotidiana, per scambiarsi esperienze, per incontrarsi, per lottare insieme contro l'autoritarismo ovunque si manifesti. I primi contatti sono improvvisati e sin dall'inizio esplode il contrasto sul rapporto col sindacato, acuito dalla netta differenziazione operata dal gruppo di Potere operaio: iniziano le polemiche sui volantini e gli attacchi della stampa comunista. Di fronte ad una lotta aspra servono a poco le dichiarazioni degli studenti di essere al servizio degli operai; serve a poco anche se di grande valore ideale e nell'accrescere la consapevolezza politica, quella che viene definita una collaborazione critica. Lo studente si politicizza, sente di non poter essere l'avanguardia rivoluzionaria se non si cimenta con la milizia politica, conosce nella pratica quotidiana i limiti dell'azione sindacale, rivendica con maggiore intensità una più generale strategia rivoluzionaria che faccia i conti col minimalismo dei sindacati e con le mediazioni dei partiti tradizionali. Le conclusioni della lotta, duramente contestate da Potere operaio, dimostrano i limiti dell'azione studentesca e la mancanza di una capacità di dirczione strategica sulle lotte «...quando la lotta si è interrotta, non si è avuta la capacità di prendere alcuna posizione. Non si è trattato di una decisione presa, ma con la presenza nella discussione di quasi tutte le possibili tesi, di prendere una qualsiasi decisione» . Ancora non conclusa la vicenda torinese, il movimento, se stenta a trovare una sua piattaforma unitaria, come dimostrano l'altalena del dibattito interno e gli esiti contraddittori dei vari convegni nazionali, riesce tuttavia ad esprimere una forte capacità di risposta e di aggregazione contro la repressione che colpisce duramente i protagonisti delle occupazioni e delle lotte. Il retroterra politico romano si presenta più debole e magmatico di quello di altre città: da ciò il ritardo d'avvio e l'incertezza della prima fase d'occupazione. La facoltà di lettere diventa il punto di riferimento fondamentale, l'assemblea generale è percorsa dalle diatribe ideologiche e dallo scontro fra vecchie e nuove dirigenze. Immediatamente si manifesta una tendenza al superamento delle prime tesi di Palazzo Campana, conseguenza questa dell'influsso anche diretto dei leader torinesi che saranno presenti in vari momenti dell'occupazione romana. In uno dei primi documenti si scrive che «!'università non può essere considerata un centro autonomo di potere [...], ma è uno strumento del potere del sistema capitalistico» . Si taglia corto con ogni illusione di contro-università: l'impatto deve essere direttamente con la struttura dello Stato. L'occupazione, decisa dall'assemblea plenaria all'inizio di febbraio dopo gli scontri di Firenze, si esaurisce per consunzione. Segue la spaccatura dell'assemblea dell'11 febbraio dove si decide «l'interruzione del dibattito politico»; in sostanza di liquidare le dispute ideologizzanti che finiscono solo col far ripiegare il movimento su se stesso. È la rottura fra il vecchio e nuovo movimento, le nuove avanguardie superano le commissioni di studio e organizzeranno l'occupazione in consigli. Alla fine di febbraio inizia la seconda occupazione: gli studenti sfondano le porte del rettorato, 88 di loro saranno denunciati e il movimento dilaga in tutte le facoltà. Si lancia la richiesta dell'esame alla pari. C'è ancora confusione fra consigli e controcorsi, si parla di politica, del Black Power, della Rivoluzione culturale cinese, di situazionismo, di Marcuse. L'analisi delle condizioni interne all'università si intreccia con l'esigenza di una nuova militanza. Contro la violenza di cui è portatrice l'università, contro il potere accademico, la risposta è l'occupazione come strumento per strappare l'università a un vecchio potere consolidato e per restituirla agli studenti, per esercitare il «potere studentesco». «Ma è forse illegale rifiutare l'università fatta di lezioni-conferenze dei professori?», chiede un volantino del consiglio di occupazione della facoltà di lettere, «E forse ingiusto reagire ad un esame che ha tutte le qualità per essere un vomitatoio, dove chi meglio vomita più è apprezzato? E dunque inumano lottare per ottenere un' università nostra? E forse illegale lavorare insieme e per tutti?» . Sono respinte le proposte tese a realizzare forme di collaboazione paritetiche fra studenti e docenti. Non ci può essere dialogo: «La scuola di classe organizza il consenso al sistema, noi organizziamo il dissenso alla scuola dei padroni». Le richieste si fanno sempre più intransigenti: è fondamentale scardinare il meccanismo dell'esame, contrastare la competitivita che esso sollecita, superare il voto come momento di separazione degli studenti. Si contesta alla radice la trasmissione di una cultura che serve solo a organizzare il consenso sociale, a perpetuare l'ideologia e i valori della società capitalistica e la selezione classista della società. Si chiede la pubblicità degli esami, la pubblica discussione del voto, la possibilità di contestarlo, l'esame politico. La risposta accademica è la repressione. Il rettore D'Avack si rivolge alle «forze sane» dell'università. L'effetto sarà la sollecitazione allo squadrismo fascista. Arriva subito dopo l'intervento della polizia: gli studenti rispondono con la resistenza passiva, oltre millecinquecento agenti rimangono a presidiare l'ateneo. Si innesca la spirale repressione-inasprimento delle lotte studentesche. La reazione delle forze accademiche conferma l'autoritarismo dell'università: lo scontro diventa tutto «politico». Si risponde così all'interrogativo posto da Oreste Scalzone «definire il ruolo del movimento. Questo è il punto di partenza [...] nel retroterra culturale e politico di molti di noi, nella ricerca d'una dimensione, d'uno spazio; nell'avere voltato le spalle al Pci e nel non avere trovato — malgrado una ricerca spasmodica — una linea su cui attestarsi che non fosse minoritaria e, in tal senso, emarginata e depauperata di virtualità effettive». Dal rivoluzionarismo delle parole e dei documenti si passa all'atto politico «provocatorio», finalizzato alla rottura degli equilibri esistenti e a enfatizzare la conflittualità politica. In quei mesi molti, entusiasmati dalle suggestioni moralistiche e palingenetiche dei primordi del movimento, abbandonano la prospettiva di una laurea a ogni costo; caduto il mito degli specifici rinunceranno a ogni futura professionalità, rifiuteranno la loro mercificazione nel sistema capitalistico per dedicare un arco della loro esperienza umana unicamente all'impegno politico militante. Le delusioni post-sessantottesche interromperanno questo processo. Nel frattempo però si è formata un' anomala figura di militante il cui destino è esposto al disadattamento o alla cupa normalizzazione, un militante fluttuante su cui pesa l'autoesaltazione di un'idealistica ed utopica fretta rivoluzionaria e al tempo stesso su cui graverà il pessimismo di fallimenti pagati sulla propria pelle. In quei mesi il domani può essere il giorno della rivoluzione. Demagogia e massimalismo guidano la proposta del salario generalizzato, ma animano questa rivendicazione anche due bisogni reali: l'esigenza di rompere ogni sudditanza rispetto alla struttura familiare e al suo intrinseco autoritarismo, la volontà di assimilare lo studio al lavoro, in una meccanica identificazione fra studenti e proletariato. Il 29 febbraio il rettore D'Avack di Roma, fa sgombrare le facoltà di lettere, legge, fìsica, chimica, scienze politiche, architettura. Il pomeriggio gli scontri a via Nazionale, piazza Colonna, sotto Palazzo Chigi. L'indomani: è Valle Giulia. L'appuntamento è fissato a piazza di Spagna, da dove il corteo degli studenti muove per rioccupare la facoltà di Architettura. Si vuole e si cerca lo scontro; la testa del corteo assalta la polizia che presidia la facoltà. È la battaglia di Valle Giulia: 144 poliziotti contusi, 47 studenti feriti, 200 fermi; queste le cifre della giornata di Valle Giulia, assalti ripetuti che coinvolgono tutto il corteo; per oltre quattro ore si susseguono gli scontri con la polizia. Così un volantino del movimento sintetizza il bilancio della giornata. «La lotta ingaggiata ieri ad Architettura è un fatto del tutto nuovo e importante. Gli studenti hanno capito che quando si è in tanti e si è uniti non si ha più paura». Ormai si è usciti con forza dall'università, il movimento romano è diventato fatto nazionale, tutta la stampa segue con interesse e stupore quello che accade nel mondo studentesco. Nel pomeriggio il dibattito alla Camera dei deputati si trasforma in un tumulto. Per il Pci, Aldo Natoli, critica duramente l'intervento della polizia. Taviani, ministro degli Interni, afferma «la necessità di reprimere i violenti», contro di lui inveiscono i deputati comunisti e psiuppini gridando «siete tutti fascisti!». Il giorno dopo, il meeting a piazza del Popolo. I leader parlano dalla balconata del Pincio, sotto la piazza gremita di studenti universitari e medi. Sono già i reduci della battaglia di Valle Giulia. Con Valle Giulia il movimento entra con prepotenza nel dibattito culturale e politico. La rivolta degli studenti è un dato imprescindibile del quadro italiano e pone nuovi interrogativi sulla praticabilità della rivoluzione in occidente. La sinistra, messa sotto accusa, deve ripensare le sue ipotesi strategiche e le caratteristiche della propria lotta per la trasformazione della società. Appaiono una provocazione, nel clima culturale e nel dibattito apertosi a sinistra, i versi che Pier Paolo Pasolini scrive all'indomani di Valle Giulia. Riletta alla luce degli eventi successivi, è una provocazione premonitrice: «Mi dispiace. La polemica contro / il Pci andava fatta nella prima metà / del decennio passato. Siete in ritardo, cari. / Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: / peggio per voi. / Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi / quelli delle televisioni / vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio / goliardico) il culo. Io no, cari. / Avete facce di figli di papà. / Vi odio come odio i vostri papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / Siete pavidi, incerti, disperati / (Benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari. / Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti. / Perché i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano. / Quanto a me, conosco assai bene / il loro modo di essere stati bambini e ragazzi, / le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, / a causa della miseria, che non da autorità. / La madre incallita come un facchino, o tenera / per qualche malattia, come un uccellino; / i tanti fratelli; la casupola / tra gli orti con la salvia rossa (in terreni / altri, lottizzati); i bassi / sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi / caseggiati popolari, ecc. ecc. / E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, / con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio / fureria e popolo» . Intanto il movimento prosegue la riflessione su se stesso e sulla necessità di una più organica unificazione politica. Di particolare rilievo il convegno nazionale dei quadri che si svolge, all'interno della Statale occupata, a Milano nei giorni 10 e 11 marzo. L'iniziativa trova ampia eco sulla stampa, articoli di commento appaiono su «II Giorno» e su «l'Unità», è presente la televisione, alcuni intellettuali di sinistra, anche se con un ruolo del tutto marginale, seguono i lavori. Per la prima volta si opera una netta discriminazione nei confronti delle organizzazioni giovanili della sinistra tradizionale, delle vecchie rappresentanze e «degli ideologi folli e teorizzatori astratti dei vari gruppi minoritari esterni al movimento studentesco» . Gli obiettivi del convegno possono così riassumersi: superare i limiti di rappresentatività riscontratisi a Trento e unificare su scala nazionale le posizioni teoriche del movimento; far assurgere la rivolta studentesca a tema dominante della vita politica, dato imprescindibile per le forze politico-sindacali e per la cultura italiana. Le relazioni introduttive sono presentate da Sandro Bassetti per Milano e Mauro Rostagno per Trento, mentre quella di Luigi Bobbio e Guido Viale, essendo i due leader torinesi in stato di clandestinità, è inviata per iscritto. L'intervento di Bassetti, improntato a un riformismo finalizzato a un generico «miglioramento delle condizioni di studio», riscuote scarso consenso. I contributi di Rostagno, Bobbio e Viale esplicitano la linea del «Potere studentesco». Le tre relazioni introduttive evidenziano il persistere di una frammentazione teorica che se pure vede prevalere come maggioritaria la linea del Potere studentesco, tuttavia non consente l'estraneazione del dissenso espresso dagli operaisti e dal composito movimento marxista-leninista. Il fallimento della tavola rotonda fra Potere operaio di Pisa, Sinistra universitaria di Napoli e il Movimento studentesco, organizzata in concomitanza del convegno milanese, è la conferma del difficile rapporto fra le varie componenti. Permangono differenziazioni fra le elaborazioni dell'occupazione di Trento e di quella torinese, resta aperta la discussione su: l'astensionismo elettorale, il salario sociale generalizzato, il rapporto fra lotte studentesche e lotte operaie, l'illegalità e la clandestinità. Ma è una forzatura sopravvalutare, come fece la stampa comunista, le divergenze: in realtà unifica le due esperienze la visione comune di un movimento studentesco come soggetto politico globale, «illegale» nel suo ribellismo antiautoritario e antistatuale. Partendo dalle caratteristiche che hanno assunto le occupazioni, Potere studentesco rifiuta ogni ipotesi di cogestione dentro le strutture esistenti dell'università e ogni visione della cultura separata dal conflitto sociale. Riprendendo il giudizio contenuto nella mozione di Trento su una lotta studentesca che ha posto al «centro della sua tematica il problema del potere: di quello attuale da spezzare, e di quello nuovo e alternativo da costruire» , per superare ogni visione corporativa, rivendica un salto di qualità politica del movimento: il passaggio dal collegamento alla convergenza con le lotte operaie. Bobbio e Viale, liberandosi da alcune strettoie dell'esperienza torinese, riconoscono alla lotta contro l'autoritarismo la capacità strategica di orientare la carica eversiva degli studenti verso «l'organizzazione permanente e collettiva della non collaborazione e la radicalizzazione dell'antagonismo». Per questo la lotta contro la scuola deve diventare il primo momento di ricostruzione di una prassi rivoluzionaria, «rompendo con la sclerosi riformista del passato» per portare il movimento studentesco su un terreno di contestazione del sistema politico e sociale. Da queste acquisizioni e dal concreto espandersi delle lotte nascono le riflessioni di Rostagno e Rieser «sull'allargamento dello scontro». Il primo riconosce come elemento persistente e qualificante del movimento l'aver «investito le strutture del sistema», e quindi «avere saputo tenere fermo il contrasto nella scuola, allargandolo successivamente ad altri settori della società civile e politica». In questa amplificazione la lotta fuoriesce dai «suoi limiti di categoria diventando lotta sociale» . Per Vittorio Rieser l'allargamento è insito nella dinamica interna del movimento, in quanto «l'emancipazione della scuola come quella dello studente passa attraverso l'emancipazione della società e dunque della classe operaia e proletaria ...». Partendo da queste premesse, di fronte alla progressiva radicalizzazione delle lotte, Rieser denuncia i limiti di strategia del movimento, oscillante fra opportunismo e avventurismo, e sollecita un collegamento non settoriale fra lotte operaie e lotte studentesche. «l' Unità» nel suo commento, attribuisce al movimento una presunta volontà di trasformarsi in partito: è un'ipotesi già avanzata da esponenti della Fgci e ripresa su «Rinascita» da Ottavio Cecchi . In realtà non è questo il cuore della proposta di Potere studentesco: essa esprime una critica radicale ai partiti di sinistra, la rivendicazione di un rapporto non contingente con la classe operaia e si pone come rivendicazione politica generalizzata e immediatamente antagonista al sistema capitalistico. Per queste stesse ragioni contiene in sé una dialettica fra autonomia movimentista e bisogno di organizzazione. Viale e Bobbio dovranno correggere l'elogio della clandestinità contenuto nel loro documento, ma resta netto l'invito all'illegalità del movimento, tema che preciseranno ulteriormente in un intervista a «Mondo nuovo»: «Qualsiasi azione di massa che non rimane dentro i limiti di una protesta autorizzata, diventa azione illegale e deve fare i conti con l'apparato repressivo dello stato» . Alle contraddizioni che nascono dall'interno si aggiungono le spinte del minoritarismo e, su un altro versante, gli orientamenti di una Fgci incerta, alla ricerca affannosa di un suo spazio politico. La sua proposta di Costituente studentesca, peraltro respinta dal convegno degli stessi studenti comunisti, esprime ancora una logica pansindacalista e quindi tende a una limitazione, più o meno esplicita, dell'autonomia politica del movimento. Analoga negazione, anche se con motivazioni opposte, proviene dall'estremismo presessantottesco, tutto proteso verso la costruzione di un'organizzazione alternativa alla sinistra revisionista e diffidente nei confronti degli studenti, considerati dai marxisti-leninisti addirittura espressione del velleitarismo piccolo-borghese, forza lavoro in via di formazione. Anche se la linea del Potere studentesco esce rafforzata e vincente dal convegno milanese, il persistere di divergenze impedisce di votare una mozione conclusiva. L'ulteriore approfondimento e l'allargamento del dibattito viene rinviato a un nuovo convegno nazionale convocato a Roma per il 14 e 15 marzo. L'attacco fascista alla facoltà di lettere e il tentativo dei vari gruppi minoritari, in particolare dei marxisti-leninisti di varia tendenza, di egemonizzare il convegno romano compromettono il suo esito e ne producono il sostanziale fallimento politico.
Il 16 marzo, Caradonna e Almirante guidano l'assalto fascista a Lettere. Dopo un lungo scontro i fascisti si barricano a Legge, da dove iniziano a lanciare spranghe, panche di legno e suppellettili varie. Numerosi i feriti: Oreste Scalzone riporterà una grave frattura alla schiena. In serata un'imponente manifestazione si snoda per le vie della città. L'indomani a Firenze si apre il convegno degli universitari comunisti.
Cfr. R. Rossanda, «L’ anno degli studenti», cit., pp. 82-91.
«Relazione sulla scuola», cit., p. 17.
II potere operaio, «La scuola e gli studenti», Libreria Feltrinelli, 1968, pp. 18-19.
Cfr. V. Rieser, Università e società, «Problemi del socialismo», n. 28/29, 1968.
II potere operaio, Su alcune posizioni del movimento studentesco di Torino, «Nuovo impegno», n. 11, febbraio-aprile 1968.
Prefazione di O. Scalzone a «Libro bianco sul movimento studentesco», a cura di M. Barone, Galileo, 1968, pp. 13-17.
«Nuovo impegno», n. 11, febbraio-aprile 1968.
«Relazione sulla scuola», cit.
Cfr. «Ciclo capitalistico e lotte operaie Montedison-Pirelli FIAT '68»,Introduzione di M. Cacciari, Libri Contro n. 7, Marsilio, 1969.
F. Ciafaloni, Le lotte operaie alla FIAT e il movimento studentesco, «Quaderni piacentini», n. 35, luglio 1968. Sullo stesso numero risposte degli operai Fiat al referendum.
«Libro bianco sul movimento studentesco», cit., p. 47.
O. Scalzone, Sull'occupazione della facoltà di lettere dell'Università di Roma, «Quindici», n. 8, 15 febbraio 1968.
«L'Espresso», 16 giugno 1968.
M. Boato, «II '68 è morto, viva il '68», cit., p. 153.
«Università: l'ipotesi rivoluzionaria», cit., p. 34.
M. Rostagno, Anatomia della rivolta, «Problemi del socialismo», n. 28/29, p. 279.
Cfr. V. Rieser, Strategia del Potere Studentesco, in «L'Astrolabio», n. 13, 31 marzo 1968 e n. 14, 7 aprile 1968, poi in «Problemi del socialismo», n. 28/29, con il titolo Università e società.
Pisa, le idee degli studenti, «Rinascita» n. 3, 1 marzo 1968.
L'intervista apparsa sul n. 12, 24 marzo 1968 della rivista del Psiup «Mondo nuovo» con il titolo Studenti e partiti è rilasciata dopo il convegno di Milano e subito prima dell'incarcerazione di Viale e Bobbio.
|
7. Il Pci dalla «sorpresa» alla «svolta»
Ambiguamente la politicizzazione delle giovani generazioni avviene con un approccio alla politica vissuta come esperienza onnicomprensiva, come trasgressione rivoluzionaria per cambiare resistente sovvertendo la normalità codificata della democrazia e l'asfissia dei tempi lunghi dell'istituzionalismo parlamentare. Vogliono gestire in proprio quella fase di lotta, costruire il loro spazio politico. Il movimento si candida a essere nella sua interezza un soggetto politico autonomo, sarà questo il tema principale dell'incontro fra i rappresentanti del movimento studentesco e Luigi Longo; un terreno di difficile confronto ma solo il suo riconoscimento consentirà la svolta comunista di aprile. Ricostruendo i caratteri del confronto Pci e studenti, Giovanni Berlinguer, in un saggio Studenti e partito apparso su «Critica marxista» alla fine del '68, fecalizza sei snodi principali: dalla «sorpresa» del novembre '67 alla risposta positiva della scettica primavera '68, un passaggio maturato «attraverso un vivo dibattito interno»; dalla «scuola rossa» del maggio al «dal voto alla lotta» dell estate, un salto di qualità che segue il «rifiuto di ogni strategia d'attesa» e infine con la mobilitazione della seconda generazione, gli studenti delle scuole medie superiori, la «saldatura di novembre» fra movimento studentesco e movimento operaio . Il Pci stenta a individuare la novità della fase che si è aperta, manca di una capacità di confronto con l'eccezionalità insita nella scesa in campo di una generazione con un alto potenziale conflittuale e con una forte volontà di imporre un radicale cambiamento al sistema dei valori, al tempo stesso sottovaluta la portata regressiva presente nel rifiuto dell'esperienza del movimento operaio e del suo patrimonio di lotta e di storia. Finisce in questo modo per oscillare bruscamente fra varie posizioni: ritardi nel comprendere lo strappo che si opera con il sorgere di un movimento con forti spinte centrifughe rispetto alla tradizione della sinistra italiana; schematici rifiuti; acritiche comprensioni non prive di subalternità sinistriste. Incertezze che si riflettono nel dibattito interno e non è marginale il fatto che proprio l'interpretazione del «Sessantotto» sarà una delle cause della scissione del Manifesto alla fine del 1969. Il problema posto dal movimento studentesco riguarda l'esito del processo rivoluzionario nel paese e in generale nelle società dell'occidente, sullo sfondo di una diversa concezione della rivoluzione mondiale, da ciò la natura principale dello scontro con l'esperienza del movimento operaio. Rossana Rossanda, nel suo libro L'anno degli studenti del giugno '68, esaltando l'immediatezza delle lotte degli studenti contro i limiti della sinistra tradizionale, scrive: «La natura della contraddizione studentesca non ammette fasi intermedie: l'esperienza le ha insegnato che la contestazione dell'autoritarismo diventa subito scontro diretto con lo stato. L'università è il sistema: pertanto non si può fondamentalmente riformare, la rivolta investe immediatamente tutto il meccanismo sociale, non scorge margini in obiettivi intermedi, brucia ogni prospettiva di tipo sindacale. Di qui la sua insofferenza nei confronti del movimento operaio organizzato, dell'intera tematica "riforma e rivoluzione" ; della sua articolazione su diversi piani, ivi compresi quello sindacale e parlamentare» . Il sistema con le sue strutture e i suoi meccanismi, democrazia, istituzioni e partiti politici, è sotto accusa. La critica coinvolge il Pci e la sua linea di «collaborazione» che tollera il parlamentarismo, consente un pluralismo solo formale e legittima la mediazione fra le classi. Il revisionismo del maggiore partito della classe operaia italiana è un nemico ancora più insidioso dell'ordine capitalistico. Le elaborazioni delle riviste degli anni sessanta, il dissenso con la sinistra tradizionale, diventano opinione diffusa, banalizzate dalla perdita dell'orizzonte teorico da cui erano originati e in qualche caso ridotti alla rozzezza della citazione estraniata dal suo contesto. Si opera la rottura con la storia come chiave interpretativa dei processi reali. La storia del movimento operaio internazionale diventa un repertorio da cui attingere slogan e modelli, il progetto rivoluzionario è un puzzle fatto di suggestioni, mode culturali, eclettismo che cerca di mettere insieme segmenti teorici fra loro eterogenei. Già nel corso delle occupazioni del 1967 si avvertono i segni del logoramento del rapporto con il Pci e il persistere di una sua difficoltà a comprendere il travaglio e le aspettative della popolazione studentesca . Per le nuove generazioni si apre un orizzonte politico illimitato, si manifesta la possibilità di una dimensione della milizia del tutto originale, ricca di protagonismo e di soggettività, lontana milioni di anni luce dalle angustie delle varie proposte di Costituente avanzate dalla Fgci. In discussione sono le grandi questioni dell'internazionalismo, della prospettiva rivoluzionaria, del ruolo e del significato della via italiana al socialismo, il tutto sullo sfondo di un crescente bisogno di una nuova socialità. All'apertura del nuovo anno accademico, pur ammettendo la necessità di rivedere il logoro sistema delle rappresentanze, la Fgci si presenta ancora con la parola d'ordine della Costituente sindacale, una proposta riduttiva e arretrata se commisurata al crescere delle agitazioni contro il decreto 2314 e più in generale della soggettività politica autonoma degli studenti. La Rossanda, allora responsabile culturale del Pci, cogliendo alcuni elementi di novità presenti nella nuova fase di lotta studentesca, nel dicembre '67 scrive, in polemica col partito e con le proposte della Fgci: «Dovremo poi meravigliarci se da certe occupazioni di facoltà, da certi gruppi studenteschi, verrà un rifiuto totale, se già oggi non è il Parlamento che assediano, perché poco se ne aspettano, come le proprie facoltà, in una ricerca di nuove soluzioni cui la società politica nella sua maggioranza di governo, si è del tutto estraniato» . Tra l'autunno 1967 e il febbraio 1968 la Fgci passa dalla proposta di Costituente sindacale a quella di Costituente studentesca e concentrando l'attenzione sempre di più sullo specifico studentesco. Alla vigilia del congresso degli studenti comunisti, è esploso in tutte le città il movimento studentesco, Claudio Petruccioli, segretario nazionale della Fgci lancia la proposta non solo alle forze tradizionali dell'Ugi e dell'Intesa ma anche alle «forze nuove che sono emerse negli ultimi tempi» . I limiti della proposta vengono denunciati nel seminario degli studenti comunisti (16-18 febbraio 1968) : nel dibattito si mettono in luce le difficoltà e le arretratezze della Fgci di fronte a un movimento che, rivendicando la sua piena autonomia politica, nella pratica delle lotte e in presenza di una totale mancanza di dirczione ha ormai sancito la fine del vecchio sistema delle rappresentanze. Attorno alla linea della Costituente studentesca c'è poca convinzione e molta perplessità. Nelle sfaccettature di un dibattito pieno di incertezze e di autocritica si fanno strada tuttavia gli elementi di quella riflessione che porterà alla «svolta» di aprile. Condizione decisiva per questo passaggio sarà il riconoscimento del ruolo autonomo del movimento. Nel marzo, dopo i fatti della stazione di Firenze, di fronte alle novità dell'occupazione romana esplosa nella battaglia di Valle Giulia, e mentre la repressione colpisce i due principali protagonisti delle lotte torinesi Luigi Bobbio e Guido Viale, costretti alla clandestinità per evitare l'arresto si accentua la polemica fra il Pci e il movimento. Paolo Bufalini interviene contro il suo antiparlamentarismo, contro i pericoli di un nuovo qualunquismo, contro un'irrazionale spirale movimentista: «Consideriamo pericolosi per la causa antifascista democratica e socialista, l'irrazionale idoleggiamento dell'estremismo infantile, l'infatuazione per posizioni quali quelle della lotta per la lotta, dell'occupazione per l'occupazione che prescindano dai contenuti o dagli obiettivi» . Commentando i fatti di Firenze, sfociati in un' aspra battaglia con la polizia, Ottavio Cecchi accusa il gruppo di Potere operaio di «sinistrismo anarco sindacalista e piccolo borghese, fondamentalmente qualunquista» . Sul tema del qualunquismo, insiste Alessandro Natta secondo cui una lotta meramente extraparlamentare porta «alla rassegnazione qualunquistica alla protesta velleitaria, perdendo di vista e negando il valore della battaglia politica e rivoluzionaria» . Luciano Gruppi invece, nell'articolo Spontaneità e direzione, ripropone in modo meccanico la funzione egemonica del Pci e del movimento operaio, ruolo derivato da una sorta di principio di autorità storica. Tuttavia, dopo aver definito il Pci come «momento della coscienza del movimento», da cui fa derivare «la necessità di una dirczione che autoritaria non è perché scaturisce da decenni di movimento reale di lotte, di maturazione dei quadri nell'azione e nella riflessione teorica». Gruppi deve riconoscere «che tra gli stessi studenti comunisti vi è un'ala che rilutta di fronte ad un effettivo rapporto con il partito che sia sì partecipazione ad una strategia e a una direzione democratica» . Ma è proprio il principio di autorità storicistica che è entrato in crisi: si rivendica un nuovo modo di fare e di essere in politica e al tempo stesso la sperimentabilità di originali approcci al tema della rivoluzione, della sua praticabilità e dei suoi valori comportamentali. Sfugge a Gruppi la fase che attraversa il movimento e le ragioni di fondo delle difficoltà dei giovani comunisti di fronte ai fermenti del mondo studentesco, tuttavia egli coglie il rischio della rottura con la tradizione del movimento operaio e della negazione del valore della dialettica democratica. Da ciò deriva, secondo Gruppi, «la scarsa attenzione per la radice della nostra lotta democratica: la resistenza e la Costituzione», un rifiuto che porta a un «estremismo infantile» e un atteggiamento politico coincidente con quello «della socialdemocrazia di destra (Bernstein)» . La piattaforma politica del convegno degli studenti comunisti, Note per un documento degli universitari comunisti,elaborate dalla direzione nazionale della Fgci, prende le mosse dall'analisi del nuovo ciclo di lotte studentesche. Pur manifestando attenzione alle novità del movimento, insiste sulla funzione egemonica del «partito della classe operaia» polemizzando contro «visioni non leniniste del problema del potere, che poi si riducono alla errata convinzione di poterlo risolvere ignorandone la dimensione unitaria e centralizzata». Non cogliendo fino in fondo i caratteri della ricerca di autonomia politica enfatizza il problema del «partito rivoluzionario» attribuendolo a un velleitarismo generalizzato del movimento studentesco: «Sono gravi errori di analisi teorica ed illusioni piccolo-borghesi quelli che stanno dietro i propositi di creare un nuovo partito rivoluzionario, il cui nucleo originario e fondamentale sarebbe offerto dalle avanguardie studentesche e la cui base teorica comporterebbe la individuazione di nuove forze motrici della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici sviluppati, prescindendo dall'analisi di Marx dello sfruttamento capitalistico e dalla individuazione del proletariato come protagonista e nerbo della negazione del capitalismo e della affermazione del socialismo» . Il convegno oscilla fra autocritica per i ritardi e inadeguatezza dell'analisi. La proposta di costruire «un'organizzazione politica nazionale degli studenti, unitaria, autonoma e di massa» una logica di sovrapposizione al movimento, peraltro totalmente separata dall'esperienza concreta vissuta in quei mesi dagli studenti comunisti. La stessa relazione introduttiva di Claudio Petruccioli riconosce «la scarsa presenza politica dei comunisti nelle lotte, dovuta ad una valutazione iniziale di esse sostanzialmente errata, esterna alla logica su cui è accresciuta la organizzazione politica del movimento studentesco». Il segretario nazionale della Fgci deve ammettere l'impossibilità per i comunisti di svolgere a breve termine un ruolo egemonico all'interno del movimento, «il quale d'altra parte conduce una lotta che non trova un terreno di confronto positivo in questa fase con la strategia, con i metodi e le forme di organizzazione della lotta dei partiti organizzati, e in particolare del Pci» . Il dibattito si svolge senza approdare a punti fermi, incertezze e frustrazioni si mescolano a rigidità e acritici aperturismi. Le conclusioni di Petruccioli vagano nell'indeterminatezza pur dovendo prendere atto della complessità delle posizioni e del travaglio prodotto per la Fgci e per l'intero Partito comunista: «Al termine di questi lavori, dobbiamo tutti uscire con una consapevolezza: che siamo in una fase transitoria, che il lavoro deve proseguire, che prendiamo atto di posizioni diverse, e ne prendiamo atto non in termini ideologici o teorici, nel senso cioè di vedere queste differenze come sanzione di un mutamento nel carattere dell'organizzazione comunista; prendiamo atto di queste differenze di posizioni, come un dato della situazione reale che dobbiamo, lavorando insieme superare, andare cioè ad una unificazione, prima di tutto al nostro interno, degli obiettivi e del discorso politico non rinunciando quindi al carattere dell'organizzazione comunista» . Nel mese di marzo «Rinascita» dedica numerosi articoli al movimento, tuttavia si è ancora in una fase di aspra polemica. Nonostante i primi segni della crisi interna, ormai il movimento si è imposto come nuovo soggetto politico: nascono i primi raccordi con l'esterno, si cercano sempre con maggiore intensità quei collegamenti con la classe operaia già auspicati nella mozione conclusiva di Trento. In questo periodo matura, sia pure guadualmente e contraddittoriamente, la svolta del Pci; le varie prese di posizione e l'ampia messe di articoli sul movimento studentesco, testimoniano il permanere di divergenze e la qualità del confronto in atto nel Partito comunista. Claudio Petruccioli nell'articolo L'assemblea e la delega che appare su «Rinascita» del 22 marzo, pur riproponendo la sostanza politica dei temi affrontati al convegno nazionale, sembra più disponibile ad affrontare la specificità autonoma del movimento e lascia cadere ogni riferimento alla proposta organizzativa della Costituente . La mozione approvata al comitato centrale del 27 marzo, condannata ogni «velleità dell estremismo», si limita a esprimere un generico appoggio alla lotta degli studenti . Vero e proprio colpo d'ala nella posizione del Pci è l'articolo di Luigi Longo, Su alcuni aspetti della campagna elettorale che appare su «Rinascita» del 2 aprile. Anche se sarebbe del tutto erroneo circoscriverla a un espediente tattico, non vi è dubbio che la preoccupazione elettorale è presente nell'argomentazione del segretario del Pci. Non si tratta solo di battere ogni linea astensionistica o il rischio delle schede bianche, minacciato da settori estremisti del movimento, quanto di comporre in una diversa collocazione strategica la questione del movimento studentesco e della formazione delle nuove generazioni. Luigi Longo, coglie con grande sensibilità politica, l'esigenza di un nuovo modo di partecipare alla formazione delle scelte politiche e, insieme, di autonomia di un movimento alleato imprescindibile nella battaglia del movimento operaio per la trasformazione, un tema che riprenderà in modo ampio nella relazione al XII congresso del partito. Longo polemizza contro «illusi e burocrati» che si manifestano nel momento in cui «si risvegliano tante e così entusiastiche forze». Un sommovimento delle coscienze non può avvenire in «modo educato». E prosegue «Proprio perché marxisti, comunisti, rivoluzionari, noi sappiamo che profondi rivolgimenti politici e sociali non possono non sconvolgere schemi precostituiti e vecchie credenze, in una parola, bisogna rimettere tutto in discussione» . Analogamente Petruccioli, sullo stesso numero di «Rinascita», riconosce fallimentare ogni presunzione di «pilotare» il movimento verso approcci politici precostituiti, in quanto qualunque sforzo per egemonizzarlo, «indipendentemente dalla consistenza dell'organizzazione che la metta in atto, sia essa il Pci o il più sparuto gruppo minoritario» risulterebbe «fondamentalmente in contrasto con la logica interna del movimento» . Nonostante la «svolta», le posizioni degli esponenti comunisti continuano a esitare nel giudizio sul movimento. A pochi giorni dalla pubblicazione dell'articolo di Longo, la relazione di Giuseppe Chiarante al convegno «I comunisti e la scuola» (Roma 6-7 aprile) nonostante gli accenti autocritici non sviluppa una coerente radiografia delle linee forza del movimento. Le polemiche subiscono un'attenuazione a ridosso della prova elettorale e appare evidente che le posizioni del Pci tendono a differenziarsi da quelle della Fgci, più sensibile alle argomentazioni del segretario del partito. All'indomani del voto, il duro attacco di Giorgio Amendola. Il suo articolo Necessità della lotta sui due frontiripete lo schema classico della cultura comunista: lottare contro l'avversario ma anche contro l'estremismo. Amendola riprende la necessità di avere nei confronti del movimento «un discorso critico [...] estremamente chiaro» in quanto «non serve a nulla ignorare i punti di contrasto, minimizzare l'importanza ed ostinarsi a dare nella nostra stampa un quadro acritico del movimento studentesco» . Amendola contesta le esitazioni della Fgci di fronte agli attacchi di gruppi e studenti che elogiando il maggio francese avevano criticato il Pcf per il suo pompierismo revisionista. Critica con asprezza quella che chiama la «vanità di certi strati studenteschi di una pretesa iniziativa rivoluzionaria». E conclude: «Non abbiamo bisogno di fare delle serenate ai giovani. Si tratta di una discussione politica, nella quale come nostri interlocutori vi sono dei militanti, ormai già ricchi di molteplici esperienze, dei quali vogliamo contestare le posizioni politiche, perché le consideriamo curate, e dannose allo sviluppo del movimento» . Ma non è tempo di lezioni e i moniti amendoliani, lucidi rispetto ai rischi possibili e alla rottura di una tradizione, mancano della forza strategica necessaria al livello dello sconvolgimento in atto. Segno della complessa discussione interna e delle future lacerazioni, quasi negli stessi giorni della pubblicazione dell'articolo di Amendola, appare nelle librerie un'interpretazione diametralmente opposta delle lotte L’anno degli studenti scritto da Rossana Rossanda. Il movimento ha ormai aperto molte brecce nella cultura comunista. Né si può ignorare il suo concorso all'avanzata elettorale del Pci. Sulla scia di queste tormentate riflessioni, nel giugno del 1968, la Fgci svolge il primo convegno di Ariccia. Gianfranco Borghini successivamente la definirà come la fase in cui la Fgci mette a punto una linea politica coerente con la natura rivoluzionaria del movimento. Le conclusioni del convegno, molto discusse e non pienamente condivise nel corpo del partito, saranno liquidate dai marxisti-leninisti di «Lavoro politico» come un mero rivolgimento tattico: «la Fgci cambia il pelo». Meno netto il giudizio più complessivo del movimento. La proposta di trasformazione progressiva della Fgci e la sua organizzazione di massa della gioventù rivoluzionaria viene letta come segno delle sue difficoltà, non rimuove le diffidenze, anzi conferma la necessità di rafforzare ulteriormente la critica al revisionismo. Contraddittoriamente proprio mentre si avverte il bisogno di una diversa capacità organizzativa l'ipotesi della Fgci, utile ai fini di non rompere definitivamente col positivo espressosi nelle lotte sessantotesche, finisce per produrre un vuoto politico che sarà riempito per i settori più politicizzati del mondo studentesco dal gruppismo che sempre più tende a spostare le tensioni prepolitiche della nuova generazione su un piano di proposta rivoluzionaria globale. In realtà il movimento studentesco, sia nella sua genesi che nelle teorie che lo hanno originato e sviluppato, ha posto il partito comunista di fronte al bisogno di rileggere la sua storia, ha evidenziato la necessità di un confronto-scontro fra varie culture della rivoluzione e della trasformazione sociale, ha messo in crisi il suo continuismo, ha posto in termini totalmente nuovi il nodo della democrazia e dello stato interrompendo il percorso teorico del togliattismo e problematizzando le culture politiche postresistenziali. Claudio Petruccioli propone una riflessione autocritica, segnalando i limiti nel rapporto col movimento. Marco Boato vi coglie i tratti di un gattopardismo finalizzato a non troncare definitivamente i ponti con un potenziale rivoluzionario che, anche se non condiviso, va utilizzato nel quadro strategico del revisionismo . Per il segretario nazionale della Fgci, di fronte ai reiterati fallimenti di ogni approccio organizzativo con il problema movimento studentesco, fallite prima ancora di ogni sperimentazione le proposte del sindacato studentesco e della Costituente, la strada è un profondo ripensamento sul movimento e sul ruolo della organizzazione giovanile comunista . Lo stesso Petruccioli sarà più esplicito nel secondo convegno di Ariccia quando affermerà «L'unica via per difendere un patrimonio ed evitarne la consunzione è il rinnovamento più coraggioso». Il problema nuovo che si pone alla cultura comunista è come spostare da un rischioso sovversivismo spinte della società che pure contengono in nuce potenziali elementi democratici e partecipativi, ma in assenza di sbocchi adeguati possono deviare, come è drammaticamente accaduto su un terreno antistituzionale e antidemocratico. In un clima sospeso tra diffidenza e tentativi di saldatura fra studenti e cultura della sinistra storica si arriverà al secondo convegno di Ariccia «Movimento operaio e studentesco» (29 novembre-1° dicembre), relatori: Achille Occhetto e Gianfranco Borghini . Il convegno tenta di riannodare in termini nuovi il rapporto con il movimento. In questa prospettiva ne enfatizza i tratti positivi e sposta tutta l'attenzione sulla valorizzazione, ai fini della battaglia per il rinnovamento del paese, delle spinte che vengono dal mondo giovanile e della domanda di cambiamento che esse esprimono. Tuttavia il risultato del convegno non raggiungerà l'obiettivo. Il rapporto cultura comunista e «cultura» del movimento resterà diffìcile e, nonostante i recuperi elettorali e organizzativi, mai completamente risolto.
La relazione di Occhetto affrontando il tema, movimento operaio e autonomia del movimento studentesco, parte dalla convinzione che non può essere visto alla luce di una «teoria generale» quanto nel vivo della lotta politica in atto nel paese e quindi della necessità di uno sbocco positivo della crisi. In questa ottica il movimento studentesco è «parte integrante del più grande movimento rivoluzionario». Un'affermazione importante che consolida la svolta dell'aprile, ma resta nel ragionamento di Occhetto una giustapposizione fra ruolo del partito politico e dei movimenti che nascono dentro e contro la moderna società capitalistica. Permane una vocazione alla teoria e alla pratica del partito interprete-precettore più che dialetticamente interattivo, nelle forme e nella condotta con un altro soggetto politico, per sua natura conflittuale, nato per vie proprie e produttore autonomo di politica. In questo senso la pur giusta denuncia dei ritardi del Pci nei confronti del movimento studentesco su cui molto si insiste nei lavori del convegno, va ben oltre il livello della «comprensione della sua natura». Il «ritardo» sarà più radicale e sarà grave per la cultura politica di una moderna sinistra.
G. Berlinguer, Studenti e partito: un anno decisivo, «Critica marxista», n. 6, novembre-dicembre 1968.
R. Rossanda, «L'anno degli studenti», cit., p. 117
R. Luperini, II Pci e il movimento studentesco, «Nuovo impegno», n. 12/13, maggio-ottobre 1968.
«Rinascita», 16 dicembre 1967.
Cfr. G. Giannantoni, T. De Mauro, G. Devoto, B. Vitale, Che fare per l'università; C. Petruccioli, Dentro e fuori le aule universitario, «Rinascita», n. 7, 16 febbraio 1968.
P. Bufalini, II partito e gli studenti, «Rinascita», n. 9, 1° marzo 1968.
O. Cecchi, Gli studenti di fronte ai partiti e agli operai, «Rinascita», n. 11, 15 marzo 1968.
A. Natta, Università da cambiare, «Rinascita», n. 11, 15 marzo 1968.
L. Gruppi, Spontaneità e direzione, «II contemporaneo» supplemento a «Rinascita», n. 13, 29 marzo 1968
Atti del Convegno nazionale degli studenti comunisti, «Nuova Generazione», supplemento al n. 17, 6 luglio 1968.
C. Petruccioli, L'assemblea e la delega, «Rinascita», n. 12, 22 marzo 1968.
Cfr. Mozione del CC del Pci del 27-28 marzo, in «Atti del convegno nazionale», cit.
L. Longo, Su alcuni aspetti della campagna elettorale, «Rinascita», n. 15, 2 aprile 1968.
C. Petruccioli, Studenti: come andare avanti, «Rinascita», n. 15, 2 aprile 1968.
Relazione di Giuseppe Chiarante al convegno «I comunisti e la scuola» ; vedi anche G. Chiarante, «La rivolta degli studenti», Editori Riuniti, 1968.
G. Amendola, Necessità della lotta sui due fronti, «Rinascita», n. 23, 7 giugno 1968.
M. Boato, I rapporti fra Partito comunista italiano e Movimento studentesco, «La Critica Sociologica», n. 17, 1971, ora in M. boato, «II '68 è morto, viva il '68», cit., p. 256 e sgg.
Cfr. Convegno nazionale quadri della Fgci, supplemento a «Nuova generazione», n. 18, 21 luglio 1968.
Cfr. Movimento operaio e movimento studentesco. Convegno Pci-Fgci, supplemento a «Nuova generazione», n. 24, 15 dicembre 1968; Cfr. G. Camboni - D. Sansa, «Pci e movimento degli studenti, 1968-1973», De Donato, 1975.
|
8. Le elezioni e il maggio francese
Quasi contemporaneamente agli scontri romani, appare nelle edicole un numero de «La Sinistra» che diverrà famoso: in copertina la riproduzione della bottiglia Molotov con le istruzioni per l'uso, all'interno il servizio sugli strumenti di difesa e di attacco negli scontri con la polizia. La stampa scrive dell'università come di una possibile «scuola di terrorismo», mette sullo stesso piano «squadrismo di destra» e «squadrismo di sinistra». Mentre cresce l'offensiva moderata, «frange non secondarie del movimento studentesco nazionale hanno superato il dogma della legalità». Si conclude definitivamente l'epoca del pacifismo e della resistenza passiva. Esplode il movimento degli studenti medi. A Milano la lotta iniziata sin da gennaio, con l'assemblea e poi l'occupazione dei licei Berchet e Panni, sfocia in una carta rivendicativa che si muove sulle linee del movimento universitario. La mobilitazione cresce in tutte le grandi città: Bologna, Genova, Roma. Allo sciopero milanese, proclamato di fronte al rifiuto del diritto di assemblea, partecipano oltre seimila ragazzi. A Roma gli studenti degli istituti tecnici intervengono in massa all'assemblea del 9 marzo al Palazzetto dello Sport. Anche gli studenti medi vogliono dare «l'assalto al cielo», anche per loro il mito della rivoluzione diventa la molla fondamentale della politicizzazione, l'occasione per incontrarsi con l'impegno militante. Con grande enfasi e con trionfalistico orgoglio viene diffusa la Dichiarazione dei compagni cinesi in appoggio alla lotta degli studenti d'Italia, pubblicata dall'Agenzia Nuova Cina il 4 marzo. Commenta i fatti di Valle Giulia: «Roma è stata ripetutamente paralizzata e le autorità governative italiane sono state poste in agitazione negli scorsi giorni quando migliala di studenti universitari hanno tenuto dimostrazioni in questa città e hanno combattuto valorosamente contro la polizia fascista che li attaccava». E conclude inneggiando al marxismo-leninismo che anima la lotta rivoluzionaria degli studenti: «Nel corso delle loro dimostrazioni e persino negli scontri con la polizia, molti studenti progressisti hanno gridato "Viva Mao-Tse-Tung" e "Rivoluzione! Rivoluzione". Molti hanno affisso delle citazioni del presidente Mao-Tse-Tung lungo le strade nonostante le minacce della polizia armata sino ai denti». Nella primavera si manifesta uno scollamento fra la base e i vertici studenteschi. La relazione letta nell'assemblea della facoltà di architettura di Roma (18 marzo) dichiara finito il «periodo pioneristico» del movimento studentesco. Si accusano i vertici del movimento di monopolizzare le decisioni. Ormai gli studenti, afferma il documento, «dopo una lunga partecipazione impegnata ed attiva», hanno acquistato consapevolezza, e superato la fase pre-politica dei primi giorni di occupazione: «Questa base è la nuova fonte del movimento studentesco, perché non è una massa numerica, ma una base cosciente, che prospetta un allargamento della lotta in forma mai raggiunta, ne sperata». Il potere accademico e politico, nel tentativo di ripristinare il vecchio ordine, interviene pesante con la repressione. Bobbio e Viale, già colpiti da mandato di cattura, dopo un breve periodo di «clandestinità» vengono arrestati. Inizia la pratica della schedatura di massa, la polizia presidia le università. Ma nella spirale occupazione-sgombero-occupazione aumenta la combattività studentesca, nascono le prime forme di illegalità, più o meno teorizzata e si diffonde il mito della violenza come elemento inseparabile dalla scelta rivoluzionaria. A Milano, all'alba del 25 marzo, scatta l'operazione di polizia per sgomberare la Statale. Come a Torino, Firenze e Roma, gli occupanti (cinquantasei studenti e due professori) sono identificati e schedati, ma stavolta l'elenco passa nelle mani della Procura della repubblica che ha ordinato lo sgombero. E la prima volta che la magistratura interviene con tale pesantezza. Due giorni prima vi è stato lo sgombero della Cattolica. L'intervento della polizia, sollecitato dal rettore Franceschini, segue il tentativo della parte più reazionaria del corpo accademico milanese di mobilitare le cosiddette forze sane per dividere gli studenti in lotta. Come già è accaduto in altre città, la mattina del 25 aprile si risponde con la resistenza passiva. Gli studenti della Statale si ritrovano con quelli della Cattolica fuori dei cancelli dell'università: cresce il clima di tensione. Alle tre del pomeriggio da via Festa del Perdono parte un combattivo corteo di oltre quattromila studenti. Ci sono tutti: quelli della Statale e della Cattolica, gli studenti di architettura e d'ingegneria, i rappresentanti della Bocconi e dei licei milanesi. Il corteo si ferma a piazza SantAmbrogio, a pochi metri dall'ateneo e l'improvvisata assemblea lancia un ultimatum al rettore Franceschini: esca e parli con gli studenti. Non si hanno risposte, si vuole rioccupare l'università, «la sede naturale degli studenti». Di lì a poco inizia la battaglia di Sant'Ambrogio, uno scontro violento coi poliziotti armati: la lotta si fraziona in feroci corpo a corpo, le cariche si susseguono, l'istituto Sant'Agnese viene occupato e subito sgombrato a colpi di bombe lacrimogene. Gli scontri proseguono per oltre un'ora: una cinquantina sono gli agenti feriti e un centinaio gli studenti, settanta i fermati. In serata il Comitato milanese di agitazione permanente proclama un'assemblea generale che si svolge ad architettura. Nel corso di essa si avverte il mutamento di clima: gli studenti hanno ormai abbandonato le carte rivendicative, le proposte programmatiche e le varie sperimentazioni didattiche. La parola d'ordine è la contestazione globale «dentro e fuori dell'università». Il 27 marzo, licei e istituti tecnici scendono in sciopero, si prospetta una grande manifestazione in piazza del Duomo. Studenti, assistenti e incaricati chiedono le dimissioni del rettore e del Senato accademico. Franceschini risponde denunciando alla magistratura cinquantuno universitari per istigazione a delinquere, violenza e minacce. L'agitazione si sposta nella città, gli studenti fanno sit-in, megafonaggio e volantinaggio nei punti nevralgici. Gli studenti e non più le sole avanguardie, nell'impatto col «Potere», avvertono di essere un nuovo soggetto politico: il movimento studentesco nel suo insieme, oltre ogni teorizzazione, si è imposto come virtuale partito. Gli eventi successivi accelerano questa potenzialità e al tempo stesso concorrono a deviarla verso la polverizzazione del gruppismo. Nell'aprile, mentre è in atto la dura repressione degli organi dello Stato, la svolta del Pci, ma il clima prelettorale aumenta i timori di strumentalizzazione. Sulle elezioni e sul partito continua la discussione. I marxisti-leninisti di «Lavoro politico» non hanno alcuna esitazione: «Non votare per i nemici di classe», scrivono sul numero di marzo-aprile. Proseguono il loro attacco al revisionismo alleato del capitalismo nella gestione del sistema. Le elezioni altro non sono che «una truffa» perpetrata ai danni del proletariato dallo Stato e dal Parlamento, «strumenti della dittatura della borghesia». La loro parola d'ordine è annullare la scheda come mezzo di propaganda e come modo per contare i veri rivoluzionar!: «Non potendo raccogliere il consenso attorno ad una propria lista, i marxisti-leninisti devono chiedere ai rivoluzionari di manifestare il consenso alla giusta linea rivoluzionaria attraverso il rifiuto qualificato del proprio voto alle liste dei partiti della borghesia, e dei revisionisti loro lacchè. La scheda nulla contrassegnata da scritte o simboli rivoluzionari, è la parola d'ordine in cui si risolve oggi la propaganda e l'agitazione dei marxisti-leninisti italiani nella presente campagna elettorale. Attraverso di essa si educano i militanti dei partiti revisionisti a rompere con tali partiti e a rendersi disponibili praticamente per la costruzione del partito rivoluzionario» . All'obiezione di fare il gioco delle destre i marxisti-leninisti rispondono: «i partiti revisionisti italiani (Pci, Psiup) sono partiti controrivoluzionari che fanno il gioco della Dc». Nessun «fronte unito» con il «revisionismo», anzi il principale obiettivo è smascherarlo come nemico di classe, più pericoloso e insidioso dello stesso capitalismo. Da questa impostazione sviluppano la polemica con gli operaisti: «Per costoro si tratta unicamente di testimoniare la propria individuale rivolta contro i partiti in generale», scrive «Lavoro politico» rivolgendosi al gruppo di Potere operaio che, pur non atteggiandosi uniformemente, lancia la proposta del «voto rosso», un voto ai partiti della sinistra anche senza condividerne la linea. Oreste Scalzone, nellopuscolo Studenti, partiti ed elezioni politiche dopo una dura requisitoria contro il revisionismo, contesta la linea della scheda bianca come una forma di partecipazione subalterna al fatto elettorale, una sorta di «testimonianza documentaria del dissenso». Per Scalzone, anche se 1 elezione del Parlamento è un fatto estraneo alla logica del movimento, «occorre tenerne conto per i suoi effetti sul quadro politico senza cadere nella trappola di un aventinismo del tutto innocuo al sistema». La scheda rossa è solo un momento tattico della battaglia: «... la scadenza immediata che si pone su questa via in questo lavoro politico è battere la De, il partito socialdemocratico, il governo di centro-sinistra che è l'espressione più significativa della fase attuale del sistema, della struttura di potere, del clima di questi anni» . La competizione elettorale si svolgerà in un paese in ebollizione; le giovani generazioni sognano una rivoluzione dai contorni indistinti e la loro critica al vecchio sistema di potere è radicale, mentre un logoro centro-sinistra tenta fino in fondo la carta della repressione e dell'appello alle forze moderate e conservatrici. Nell'accidentato percorso verso la definizione di una strategia politica globale, l'instabilità delle sedi di discussione e ravvicinarsi della scadenza degli esami incombono sulla tenuta del movimento. Intanto continua l'escalation della repressione. Alla vigilia della prova elettorale lo «Stato forte» vuole dare prova di sé. A Roma sono arrestati, per il furto di alcuni volumi dalla biblioteca di architettura, Massimiliano Fuksas e Sergio Petruccioli insieme ad altri studenti di giurisprudenza. Seguono altre incriminazioni. Un'accelerazione si realizza con la manifestazione del 20 aprile davanti al laboratorio militare Abc; il teach-in degli studenti è ripetutamente caricato dalla polizia. La stessa sera si sviluppa l'incendio doloso ai magazzini americani della Boston Chemical. L'attentato non è rivendicato. Tra il 22 e il 25 aprile vengono perquisite circa sessanta abitazioni, numerosi studenti sono incriminati, un centinaio sono interrogati. La stampa vicina al movimento scrive di «interrogatori ideologici» e di «processo alle idee». Il 25 aprile sono arrestati Franco Piperno e Antonio Russo che successivamente militerà nell'Unione dei comunisti italiani (m-1): sono accusati dell'attentato e insieme a loro sono denunciati per concorso e favoreggiamento altri sei studenti. Contro la repressione il 27 aprile si svolge una manifestazione in piazza Cavour. Sui cartelli le scritte: «liberate subito gli operai della Fiat e di Valdagno», «si tortura non solo in Vietnam ma anche a Roma», «Piperno-Russo liberi», «il potere nella scuola e nel lavoro si conserva con la violenza e la repressione». La manifestazione sta concludendosi quando iniziano le cariche: è una vera e propria caccia al sovversivo. Alcuni giorni dopo, durante l'assemblea dei professori di ruolo riunitasi per discutere dei problemi dell'università, numerosi docenti, fra cui Walter Binni, Bruno de Finetti, Gustavo Minervini e Giorgio Spini, firmano un documento contro l'autoritarismo. In una conferenza stampa Ferruccio Parri, il prestigioso leader della Sinistra indipendente, denuncia le «vergognose torture» cui è stato sottoposto Antonio Russo nel carcere di Regina Coeli. Nel memoriale che consegna alla stampa, lo studente si chiede: «a che cosa può portare questa struttura repressiva?». E risponde: «Non certo a recuperare alla società il detenuto ma a sviluppare in lui la paura e l'odio. Solo che la paura di tornare in carcere non è mai abbastanza forte da frenare l'odio». No al fascismo! titola l'editoriale di Ferruccio Parri sull'«Astrolabio». Esplode la grande fiammata del maggio francese: l'eversione auspicata da Cohn-Bendit e dai suoi «arrabbiati», da Nanterre si propaga a macchia d'olio alla Sorbona e alle altre università francesi. Gli «arrabbiati» sono contro tutto il sistema si scontrano duramente con la Cgt e il Pcf. Georges Marchais, in un articolo sul quotidiano del partito, si scaglia contro il Movimento 22 marzo e contro il suo leader Cohn-Bendit, definito sprezzantemente «l'anarchico tedesco». René Piquet, responsabile della gioventù comunista, critica apertamente le posizioni di Marchais mentre «l'Humanité», l'organo del partito, sembra voler ricucire il rapporto con gli studenti, allineandosi con le motivazioni che sono alla base della rivolta studentesca. Ormai la spaccatura è profonda ed è essa stessa una molla della rabbia movimentista. «L'Express», commentando la contestazione contro lo scrittore Aragon nel corso della manifestazione del 9 maggio, scrive: «L'autore dell'Homme comuniste ha constatato con dolore la nascita dell'Homme d'ultra gauche». La dura reazione dello Stato provoca un fronte comune fra studenti e sindacati. Lo sciopero generale proclamato dalla Cgt sembra essere la prova della vittoria studentesca: anche «il revisionismo» si deve piegare di fronte all'onda montante della rivolta. Sulle barricate di Parigi si infrangono i sogni facili, le utopie dell'«ora X», il velleitarismo di trascinare nello scontro la sinistra ufficiale. La lezione del maggio sarà amara. Ne derivano la conferma dello strappo operato nel corpo della sinistra e la riprova che l'affermazione del movimento come soggetto autonomo, capace di imporre una strategia della rivoluzione passa per strade del tutto inesplorate. Da ciò la consapevolezza che si è chiusa una fase della vita del movimento studentesco. Cresce il bisogno dell'organizzazione: non è possibile una rivoluzione senza teoria e senza un'organizzazione alternativa. Questo tema predomina la riflessione e 1 esperienza interna del movimento, marginalizzando ogni interesse sul significato del voto. Il 19 maggio si svolgono le elezioni politiche in Italia: saranno le ultime a scadenza ordinaria. L'operazione Psu (l'unificazione socialdemocratica) è nettamente sconfitta, avanza in modo consistente il Pci; il Psiup, alla sua prima competizione elettorale, raggiunge il 4,5 per cento dei voti. Sorprende la tenuta della Dc accompagnata dalla secca sconfìtta delle destre. Alimentano il voto alla Dc, in particolare per le giovani generazioni, le molte spinte a una mutazione dei caratteri dell'impegno sociale dei cattolici. Il sommovimento che contrassegna il tradizionale pensiero della sinistra, trova diversi parallelismi negli scossoni ideologici che si manifestano nell'arcipelago del collateralismo cattolico. Aspetti diversi di questo processo sono il discorso autocritico di Moro sul Sessantotto e sui giovani, l'itinerario di «Questitalia» e dello spontaneismo cattolico, le novità che caratterizzano il sindacalismo cislino. Nel loro complesso le elezioni segnano uno spostamento a sinistra, tuttavia agli elementi dinamici che si sono introdotti nel quadro politico non corrisponde una sua modificazione. Ancora una volta permane un divario profondo fra le aspettative e il governo del paese. Per le avanguardie del movimento è un'altra conferma della necessità di forzare i tempi e le forme della politica. La rivista «Lavoro politico» continua con il suo pedagogismo ideologico la campagna sul partito: «Primo dovere di ogni rivoluzionario è costruire il partito che guiderà le masse alla rivoluzione» . Il gruppo di Walter Peruzzi cerca di superare il propagandismo settario del Pcd'I facendo leva sulle contraddizioni irrisolte del movimento e cercando di tradurre in organizzazione l'adesione degli studenti al maoismo e alla Rivoluzione culturale. Nelle citazioni del libretto rosso si trovano i principi della costruzione del partito, i caposaldi ideologici della milizia politica; le tensioni politiche del movimento sono strumentalmente ridotte al semplicismo dell'assioma: per sconfiggere i partiti revisionisti è necessario il partito rivoluzionario, un partito rivoluzionario può vivere solo se animato da una teoria e questa è il marxismo-leninismo. Per «Lavoro politico» senza questo passaggio si cade nel movimentismo fine a se stesso che è incapace di liberarsi definitivamente dall'ipoteca revisionista. Nel numero di luglio, la rivista riflettendo sulla lezione del maggio francese, sviluppa una serrata critica alle illusioni elettoralistiche e afferma l'ineluttabile necessità del partito della rivoluzione. Le elezioni sono una «truffa della borghesia», essa vi ricorre «quando il processo rivoluzionario non è ancora riuscito a maturare una reale coscienza di classe nella maggioranza degli sfruttati». Il risultato elettorale è dunque scontato: non può che essere favorevole alla borghesia. Peraltro la mancanza di un partito «rivoluzionario» costringe gli elettori a scegliere fra partiti egualmente integrati nel sistema borghese e quindi innocui. Diverso l’atteggiamento quando il processo rivoluzionario ha già costruito una solida presenza fra le masse ed esiste un reale partito rivoluzionario. In questo caso «la borghesia ricorre al colpo di stato fascista, liquida l'organizzazione rivoluzionaria e sopprime le "libere" elezioni» .
Dalla Francia la conferma di questa «tecnica». De Gaulle «ha indetto le elezioni sapendo che il movimento rivoluzionario era ancora limitato alla classe operaia e agli studenti (i quali non avrebbero votato) mentre non aveva ancora saputo stabilire giusti collegamenti con la classe contadina e piccolo-borghese, la quale poteva essere conscguentemente manovrata — agitando lo spettro del comunismo — dalla propaganda gollista». Contemporaneamente De Gaulle «si è assicurato che le organizzazioni impegnate ad estendere il movimento rivoluzionario fossero messe nell'illegalità prima delle elezioni, in modo che queste non potessero essere turbate da "incidenti" o da attentati alla "legalità" del regime borghese». Dunque un risultato scontato; «La piccola borghesia reazionaria, i contadini coi quali nessuna forza politica aveva ancora stabilito giuste alleanze, non potevano che votare per De Gaulle. Gli operai delusi e traditi, hanno in parte votato "il più a sinistra possibile" spostando mezzo milione di voti dal Pcf al Psu, in parte hanno disertato le urne dimostrando di aver così inteso il tradimento e la truffa perpetrata nei loro confronti. Gli studenti — che erano nelle piazze a scandire "elezioni-tradimento" — non erano però nelle cabine elettorali» . Così la borghesia ha vinto con lo strumento pacifico, ma ha fatto intendere ai francesi «con il richiamo di Salan, Massu, Bidault e la formazione di squadre dedite alla tortura» di essere pronta ad usare altri strumenti, pur di conservare la sua «dittatura». Ne deriva l'insegnamento fondamentale: «L'impossibilità di una via pacifica al socialismo, la necessità della presa rivoluzionaria e violenta del potere». Uno schema interpretativo che alimenta e sostiene l'assillante bisogno organizzativo delle aree più politicizzate del movimento. Analogamente a «Lavoro politico», anche se con un diverso retroterra culturale, «Nuovo impegno» insiste contro lo spontaneismo: stanno maturando le condizioni del dibattito dell'autunno-inverno con la conseguente scissione del gruppo redazionale.
Non votare per i nemici di classe, «Lavoro politico», n. 5/6, marzo-aprile 1968.
O. Scalzone, «Studenti, partiti ed elezioni politiche», Libreria Feltrinelli, 1968, p. 50 e p. 54.
Senza partito niente rivoluzione, «Lavoro politico», n. 7, maggio 1968.
|
9. L'ottobre rosso degli studenti
II movimento entra nella sua fase estiva. Il dibattito e la pratica si sviluppano in mezzo a molte puntigliosità ideologiche, orbitando attorno al dilemma del partito e dell'organizzazione. Prosegue, acutizzato dai fatti francesi, lo scontro col revisionismo. L'invasione sovietica della Cecoslovacchia è un nuovo shock. Contro il socialismo di Stato che soffoca le libertà, contro il socialismo burocratico e imperiale, si ribella il protagonismo sessantottesco. Il giorno stesso dell'ingresso a Praga delle truppe del Patto di Varsavia con una coraggiosa presa di posizione dell'Ufficio politico «i comunisti italiani giudicano ingiustificato ed esprimono il loro dissenso per l'intervento militare in Cecoslovacchia». Ancora una volta si fanno i conti con lo stalinismo e tornano gli interrogativi che hanno originato il dissenso interno alla sinistra a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. La conferma del ruolo di potenza imperialista dell'Urss si accompagna alla speranza che si riversa sul maoismo della «Grande rivoluzione culturale». Già prima degli eventi cecoslovacchi, il convegno di Venezia (8-9 giugno) e il convegno di Trento (23 giugno), entrambi sul tema «operai-studenti», segnano un'accelerazione in dilezione di un autonomo rapporto del movimento con la classe operaia. A Venezia riemergono i gruppi minoritari, riaffiorano le contrapposizioni ideologiche e i meccanici accostamenti fra lotte studentesche e lotte operaie. Il dibattito, a cui partecipano militanti e intellettuali della sinistra ufficiale, non esce dal generico limitandosi alle postulazioni di principio. Le università si chiudono nella quasi totale indifferenza. La lotta sull'esame politico non riesce a galvanizzare, anzi introduce divisioni e qualunquistiche adesioni al movimento. Per i militanti formatisi nelle occupazioni e nelle manifestazioni di piazza la prospettiva è ormai il lavoro esterno, alla ricerca di quella classe operaia, tanto criticata quanto mitizzata. Mutuate dal sociologismo, ideologizzate attraverso una frettolosa e schematica lettura del maoismo, l'inchiesta e la pratica sociale divengono la metodologia di base del lavoro politico esterno all'Università, l'occasione per la formazione di veri e propri militanti a tempo pieno. In un documento del movimento studentesco romano si legge: «Per i nostri militanti questo è un vero e proprio banco di prova: superarlo vuol dire porre le basi per l'organizzazione rivoluzionaria nel paese; venirne sconfitti vorrebbe dire o chiudere la lotta nell'università con i pericoli riformisti di cui si è detto, o isterilire il movimento in un lavoro operaistico e senza sbocco. Gli studenti possono diventare dei militanti rivoluzionari strettamente legati alle masse oppresse o possono invece rimanere studenti, ma per quanto ribelli, esterni alle masse. La nuova realtà universitaria non deve isolarsi, deve scardinare le vecchie barriere ideologiche, fare aria nei santuari marxiani, imporre una sperimentazione corretta e aderente alla linea di massa». Il convegno di Trento è convocato unitariamente dalla Fiom-Cgil, dalla Fim-CisI e dal movimento studentesco trentino. Per il sindacato partecipano i due segretari nazionali Bruno Trentin e Luigi Macario. Il vizio dell'astrattezza e dell' ideologismo, anche se avvertito, non è superato. La natura dell'impasse è evidenziata nello stesso foglio di convocazione: «L'obiettivo del convegno è un confronto fra le varie esperienze di sede che riescano a superare la pura cronaca degli avvenimenti o gli astrattismi ideologici dei teorizzatori di mestiere, per arrivare ad un approfondimento dei temi politici e ad un chiarimento sulle possibili strategie e tattiche del Movimento, in funzione del rilancio delle lotte a ottobre-novembre». Anche questa occasione comunque non produce sostanziali passi in avanti e la questione del rilancio del movimento studentesco è rimandata a un prossimo appuntamento fissato per settembre. Se il Nord attrae per le lotte operaie, il Meridione non esercita un minore fascino: le sue storiche contraddizioni sembrano un fertile terreno di sperimentazione per il terzomondismo nò-strano. Il populismo maoista vi cerca la grande occasione per far scoccare la scintilla rivoluzionaria. Nel Sud si è sviluppata una certa presenza del Pcd'I, dal Sud vengono le proteste di Cutro e di Isola Capo Pizzuto che sembrano rivitalizzare antiche tradizioni anarchiche e far riemergere il ribellismo popolare. Sembra possibile trasformare il Meridione in una «base rossa» da cui partire, applicando il principio cinese, per l'accerchiamento «dalle campagne alle città». In Calabria, nell'estate, si avvia la formazione dell'Unione dei comunisti marxisti-leninisti, mentre il Pcd'I si consuma definitivamente nella sua lotta interna, fino alla scissione di dicembre fra la «linea rossa» e la «linea nera». Le lotte alla Fiat hanno manifestato le crepe interne del movimento e il riflusso dell'estate concorre a far esaurire l'esperienza dell'assemblea operai-studenti di Torino. Dentro i gruppi operaisti si apre la questione dell'organizzazione. Indicativo del dibattito in corso l'articolo di Edoarda Masi su «Quaderni piacentini» di luglio La nuova sinistra e il problema dell'organizzazione. Il ragionamento della Masi enfatizza le potenzialità unificanti contenute nella consapevolezza dello scontro frontale al «sistema», e considera questo «fine comune» sufficiente a far dissolvere in prospettiva i gruppi «come entità isolate e differenziate». «Pur nelle divergenze di analisi, di impostazione, di tesi, esiste un comune denominatore che li unisce e che è riconoscibile non appena la coscienza minoritaria tende a farsi coscienza di massa». Anche se questa intenzionalità anima ogni singolo progetto di organizzazione, si dimostra del tutto illusoria ogni ipotesi unificante di «nuova sinistra». Tuttavia, in uno scenario contrassegnato da contrasti e costanti scissioni ma anche dal raggrumarsi di nuove esperienze minoritarie, si forma quella cultura dell'insubordinazione sociale che alimenterà il sinistrismo. La galassia del movimento risulta attraversata da contrasti di fondo, l'irrisolto dissidio operaismo/marxismo-leninismo è reso ancor più confuso e osmotico dall'eclettismo culturale che accompagna l'approccio generazionale al mito rivoluzionario. Il forzato processo di autorganizzazione cristallizzerà sempre più le posizioni dando vita alla proliferazione minoritaria. Il 2 e 3 settembre il nuovo appuntamento nazionale a Venezia: tutta la stampa nazionale da grande risalto all'iniziativa, molti sono i tentativi di deformarne la natura. «L'Espresso» titola L'ottobre rosso degli studenti . Dai lavori delle varie commissioni si ricava una prima sintesi delle posizioni a confronto. In nuce rappresentano le linee teoriche delle diverse formazioni. Il gruppo di lavoro sulla scuola fa una radiografìa delle posizioni che coesistono nel movimento: Torino, Trento, Genova e in parte Venezia, sono considerate uno sviluppo della strategia del «Potere Studentesco»; Milano, criticata per il suo movimentismo, è tutta protesa nel rapporto con le lotte esterne all'università, mentre a Roma la situazione si presenta fluida e si avverte più che altrove la presenza dei marxisti-leninisti. A Roma, nel suo eclettismo, la linea maggioritaria del movimento imposta: «una lotta contro tutte le istituzioni dello stato borghese, rifiutando le mediazioni sindacali e parlamentari e proponendo invece una linea politica che si sviluppi dall'interno delle lotte, che accetti e superi i livelli di scontro raggiunti attraverso una violazione costante e consapevole delle regole del gioco borghese, rappresentata dai canali istituzionali, attraverso cui viene generalmente recuperata la potenzialità eversiva della lotta». Analogo tentativo di classificazione delle varie posizioni e insieme di bilancio critico viene operato nelle altre due commissioni, «Lotte operaie e contadine» e «Quartieri». La lotta contro l'autoritarismo nella scuola è ormai diventata il pretesto di una più generale prospettiva strategica del movimento. In una delle relazioni al convegno, quella di Pino Ferraris, si legge: «L'apporto più originale e sconvolgente delle lotte studentesche non consiste tanto nelle idee e nella volontà di contestazione globale, ma nell'esistenza stessa del Movimento studentesco come movimento politico di massa». In quanto tale, si prosegue, esso rappresenta «la critica vivente della strategia riformista» . È in questa consapevolezza la natura della contraddizione fondamentale in cui si dibatte il movimento: il problema del suo sbocco politico. Il ragionamento di Vittorio Rieser orbita attorno a quella che è considerata la contraddizione fondamentale dei partiti comunisti, «che hanno bisogno di creare una grande forza di lotta e di pressione per il loro inserimento al governo ma al tempo stesso non possono non praticare una alleanza sostanziale con la borghesia e con la socialdemocrazia». Da ciò il carattere meramente tattico della svolta di aprile che serve al Pci per «non lasciarsi sopravanzare da una spinta di lotta incontrollata». Dunque l'esigenza di un'alternativa. La sua comunicazione insiste sulla validità della lotta antiautoritaria come prospettiva strategica del movimento, si presenta come una piattaforma politica. Contro ogni impostazione restrittiva, questa acquisizione fondamentale del movimento studentesco si deve estendere a tutto lo scontro di classe: «Non sempre si opera una connessione, esplicita e sistematica, tra le forme dell'autoritarismo e le forme dei rapporti di produzione che definiscono i rapporti di classe nella attuale società capitalistica. Questa connessione esplicita e sistematica è necessaria se la lotta anti-autoritaria viene vista come elemento di continuità strategica dell'azione del Movimento studentesco e non come aspetto tattico transitoriamente importante» . Oreste Scalzone va oltre l'individuazione di questi nessi: la necessità di una lotta antistituzionale e antiautoritaria significa: «scontrarsi con la scuola, impedirne la riforma; realizzare una mobilitazione di massa degli studenti contro l'uso capitalistico della loro condizione; intervenire nelle lotte svolgendo un lavoro di collegamento e di generalizzazione: significa organizzare le tensioni, far nascere dallo scontro l'organizzazione della lotta, agire nel presente, cominciare a costruire il tessuto, la trama, capace di stringere alla gola il capitale, fino a sopprimerlo» . In sintonia con Scalzone, Franco Piperno propone «l'annullamento dell'anno accademico» per contrastare il piano di ristrutturazione capitalistico in un suo punto decisivo. A suo avviso la saldatura fra lotte operaie e lotte studentesche non consiste «in una negazione parallela dell'autoritarismo nell'Università e nella fabbrica», ma nell'obiettivo generale dello «scardinamento» dei piani del capitale . Su «Rinascita» Gianfranco Borghini, individua nel convegno due linee «profondamente contrastanti» fra loro. Nell'animato dibattito, infatti, si confrontano la negazione del partito politico e al tempo stesso la sollecitazione della sua rifondazione, affermando il ruolo autonomo dei movimenti di massa e quindi dello stesso movimento studentesco . L'interpretazione di Borghini risulta funzionale alla riflessione della Federazione giovanile comunista, e tende a sottovalutare la carica autorganizzante che si sta affermando dentro il movimento e la rottura ormai operatasi con la sinistra storica. Commentando i risultati del convegno in un'intervista al settimanale «Settegiorni», Marco Boato precisa: «Le caratteristiche che deve avere lo sbocco politico del movimento, dimostrano che esso deve intendersi non come ipotesi di un unico scontro frontale, generalizzato e definitivo a breve scadenza, ma come un lungo processo che si prepara e si costruisce attraverso l'organizzazione e la caratterizzazione politica di tutte le lotte sociali; lotte che sono potenzialmente antagonistiche e che si determinano ed esplodono in rapporto al radicalizzarsi delle contraddizioni strutturali del sistema sociale neo-capitalistico ed imperialistico e dal loro riflettersi sempre più diretto e brutale su tutte le istituzioni sociali». In sostanza si è aperto «il problema della rivoluzione a livello mondiale» e si è decretato, con la nascita del movimento, l'anno della «definitiva morte politica di Togliatti, della strategia delle riforme di struttura e della via italiana al socialismo» e «di tutto il sistema dei partiti comunisti legati all'Unione sovietica». Il convegno di Venezia rappresenta il bilancio di un'intera fase di lotta del movimento e segna, nell'asprezza del confronto e nella ripresa dell'egemonia del minoritarismo, l'apertura di un nuovo ciclo di lotta. L'impossibilità di rimandare un'unificazione strategica resta un'intezione. Prende il sopravvento il dogmatismo. Il confronto con le lotte operaie e le brusche accelerazioni all'autorganizzazione accentuano le reciproche diffidenze. Il 4 ottobre del 1968 aree consistenti del movimento studentesco romano (Luca Meldolesi, Nicoletta Stame, Enzo Caputo, Maria Sebregondi. Rocco Pellegrini), il gruppo milanese ex Falce e Martello (Brandirali, Bonriposi) e alcuni militanti del Psiup di Paola (Enzo Lo Giudice) formano la direzione nazionale dell'Unione dei comunisti marxisti-leninisti e si autodefiniscono «il nucleo d'acciaio» che deve costituire il partito rivoluzionario. Di lì a poco uscirà il primo giornale di un gruppo organizzato, «Servire il popolo». Con l'atto volontaristico di quel piccolo gruppo si è sciolto il problema dell'organizzazione: l'Unione nazionale di una fitta trama di contatti e comincia ad agire da partito. Sempre sul fronte dei marxisti-leninisti si va intanto definendo la scelta di campo di «Lavoro politico». Nel numero di settembre la rivista, proseguendo nella rilettura in chiave marxista-leninista del revisionismo, sviluppa un forte attacco ai limiti del movimento studentesco e ai risultati contraddittori del convegno di Venezia. Considerando la «sovversivistica e piccolo-borghese», critica la rivendicazione della autonomia del movimento rispetto alle altre forze sociali. Contro questa tendenza che produce costanti deviazioni e un sostanziale opportunismo nei confronti del revisionismo, per «Lavoro politico» non e' è altra strada che il «Partito», estendere la sua capacità egemonica e combattere l'influenza dei revisionismo fra le masse studentesche. Matura l'approccio al Pcd'I. Viva il Partito comunista d'Italia titola con enfasi l'editoriale della rivista di novembre-dicembre. Nel comitato di redazione non figura più Renato Curcio, mentre il resto del gruppo di Walter Peruzzi confluisce nel troncone della «linea rossa» e ha un ruolo determinante nella scissione di dicembre. Se i marxisti-leninisti sciolgono con una spinta soggettiva la questione dell'organizzazione, più complesso si presenta il dibattito negli altri comparti del movimento e negli stessi gruppi minoritari antecedenti al Sessantotto. Il superamento della microrganizzazione territoriale, esigenza avvertita già alla fine del 1967, all'apice della scomposizione-ricomposizione dell'operaismo, è rimasto senza risposta e di fatto è stato scavalcato dall'esplosione del movimento. Lo sfaldamento, che caratterizza la ripresa, ripropone con nuova attualità il bisogno di dare punti di unificazione e di incanalare in una forma strutturata, pena una sua dispersione, il potenziale rivoluzionario che si è espresso nel corso delle lotte. L'esasperata ricerca di una propria identità teorico-politica, capace di egemonizzare l'intero movimento e l'insieme della «nuova sinistra», ideologizza le reciproche differenze. Si forma così una miriade di microteorie che si rivolgono ai medesimi interlocutori sociali, che operano sulla stessa platea di reclutamento, che formano nella dialettica unita-diversità, organizzazione-spontaneità, operaismo-maoismo, le peculiarità delle singole formazioni e al tempo stesso i caratteri osmotici dell'estremismo postsessantottesco. Tra la fine del 1968 e la fine del 1969 si definisce la nuova geografìa dell'operaismo. Con l'editoriale Rivoluzione culturale ed organizzazione del numero 14/15 dell'aprile 1969, «Nuovo impegno» prende le distanze da Potere operaio, orientando la propria scelta politica nella dirczione marxista-leninista della presenza esterna al movimento e quindi optando per la soluzione del «partito». Attorno al nodo dell'organizzazione, le due relazioni di Adriano Sofri e Luciano della Mea sul rapporto avanguardia-massa nel dibattito promosso da Potere operaio nel settembre 1969 rappresenteranno nella loro diversità i punti di approdo a cui è giunta eterogenea esperienza del gruppo e la natura del processo di scomposizione che si avvierà. Si darà vita successivamente alle due distinte strutture dell'operaismo: Adriano Sofri diventerà leader della costituenda Lotta continua mentre per il versante veneto-romano, Piperno, Scalzone e Negri raccoglieranno l'eredità di Classe operaia interpretandola in una chiave organizzativa. Diversa la storia del gruppo di «Nuovo impegno»: Cazzaniga e Campione formeranno il Centro Carlo Marx, mentre Luciano della Mea, Romano Luperini e la maggioranza del collettivo redazionale insieme ai quadri di Massa e Carrara, La Spezia, Pisa e Firenze daranno vita alla Lega dei comunisti italiani. Sarebbe erroneo, nel considerare questo processo di nuova articolazione, non aver presenti gli effetti che derivano dagli esiti del XII congresso del Pci, gli elementi di novità introdotti dalla vicenda del «Manifesto», l'abbassamento generale della tensione politica attorno ad un movimento studentesco, che alla ripresa autunnale non ritrova il suo slancio e infine l'eccezionalità delle lotte sindacali che mutano sostanzialmente lo scenario della lotta politica italiana. L'anno degli studenti si chiude in modo drammatico. Nella notte di Capodanno, a Viareggio la polizia spara contro operai e studenti che manifestano davanti al lussuoso locale «La Bussola». Soriano Ceccanti, un ragazzo di 16 anni, è colpito: rimarrà paralizzato per sempre. Sono arrestati quaranta fra studenti e operai. Il comunicato dell'ufficio politico del Pci afferma: «Nessuna giustificazione può esistere per l'impiego di reparti armati di polizia contro i giovani dimostranti di Viareggio, e il ricorso alle armi anche da parte di singoli agenti non può che definirsi criminoso» '". Sono trascorsi pochi giorni dai fatti di Avola, dove la polizia ha sparato contro i braccianti. Governo e polizia sono reticenti, deformano i fatti attribuendo le responsabilità ai manifestanti, Pci e sindacato chiedono in Parlamento il disarmo della polizia nei conflitti sociali. La stampa conservatrice e reazionaria si scatena contro gli studenti. «La Nazione» definisce «fascisti» i giovani di Potere operaio pisano. «Il Tempo», in prima pagina, scrive: «la gente comincia ad armarsi, per difendersi e sostituirsi cosi a chi dovrebbe (lo Stato) opporsi al disordine».
G. Bultrini, M. Monicelli, L'ottobre rosso degli studenti, «L'Espresso», n. 38, 22.settembre 1968; sul convegno di Venezia cfr. «Settegiorni», n. 66, 15 settembre 1968.
P. Ferraris, I movimenti politici di massa, «Monthly Review», n. 10, ottobre 1968.
V. Rieser, Movimento studentesco e la lotta di classe in Europa, «Monthly Review», n. 10, ottobre 1968
«Monthly Review», n. 10, ottobre 1968
G. Borghini, II movimento e le sue prospettive. Studenti alla vigilia di nuove lotte, «Rinascita», n. 36, 13 settembre 1968.
«l'Unità», 2 gennaio 1969
|