VI
LE STRATEGIE DELLA TENSIONE
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1. I partiti del sinistrismo
II problema dell'organizzazione alternativa al «partito revisionista» ha avuto una lunga incubazione: per oltre un decennio la ricerca e la sperimentazione politica della nuova sinistra ha orbitato attorno a questo tema. Il Sessantotto segna la svolta. Nel corso delle agitazioni studentesche, nella dialettica fra avanguardia e movimento, cresce la necessità di una dirczione politica unitaria. Tuttavia i numerosi convegni nazionali dei quadri non riescono nell'intento di fornire un momento centralizzato di dirczione e unificare gli obiettivi di lotta in un comune indirizzo strategico. Peraltro la tanto rivendicata autonomia del movimento, è messa costantemente in discussione da un leaderismo che egemonizza le assemblee studentesche riducendole spesso a una cassa di risonanza in cui le linee dei gruppi si scontrano senza trovare una sintesi compiuta. Nonostante questi limiti si diffonde la «pratica sociale» degli studenti, un apprendistato politico vissuto come una scelta esistenziale. La riflessione sui fatti del maggio francese, combinandosi con il riflusso estivo del movimento, accelera il bisogno di autorganizzazione. «La rivoluzione non si può fare senza partito!», affermano perentoriamente i marxisti-leninisti, mentre gli operaisti si dividono sulla forma che deve assumere l'organizzazione. Nella breve memoria storica del Sessantotto la lezione negativa è rappresentata dal Pcd'I col suo forzato volontarismo, un'esperienza che non si vuole ripetere. Eppure non è facile scegliere tra la rigidità di una struttura centralizzata e la fluidità di un movimento che ha dimostrato la sua disponibilità alla rivoluzione. I gruppi, anche se nelle lotte universitarie si sono mimetizzati, hanno avuto un ruolo decisivo per le loro teorie e per la capacità aggregativa dimostrata nei momenti cruciali. Dalle loro file sono emersi i nuovi leader di massa, mentre i quadri più interni al movimento sono attratti dalla loro pervicace volontà a farsi organizzazione. Spinge in questo senso la volontà di raccordarsi alla classe operaia, superando l'ambito universitario e facendo assolvere al movimento un ruolo politico generale. Non si tratta solo della tensione volontaristica dei quadri più attivi nelle lotte, ma piuttosto dell'effetto di un clima in cui l'antirevisionismo non si limita ad alcune avanguardie ma è un sentimento diffuso che, prima ancora di ogni giudizio teorico, esprime l’ esigenza di un diverso modo di fare politica. All'interno di questo clima lo stesso risultato elettorale del maggio ha una duplice valenza: dimostra il potenziale soggettivo «disponibile al comunismo», ma al tempo stesso aumenta la necessità di sottrarre al Pci la possibilità di gestire politicamente tutte le forme di contestazione. Si ritengono ormai mature le condizioni soggettive e oggettive di una transizione rivoluzionaria. Non contano i reali rapporti di forza, occorre restituire la coscienza rivoluzionaria a una classe operaia ancora troppo integrata nel sistema e quindi liberare le forze disponibili dall'egemonia del revisionismo, dei sindacati, della partitocrazia. Se comune è l’esigenza di un'unificazione strategica, le divisioni si manifestano sulle caratteristiche e sui tempi della costruzione del partito rivoluzionario. Pur affermando il valore dell'organizzazione non è facile separarsi dal movimento studentesco che rimane la base essenziale del reclutamento delle diverse formazioni. I gruppi, con il loro policentrismo, saranno una componente decisiva del suo dissolvimento. Progressivamente il movimento degli studenti perderà la sua identità. Dietro la sua sigla, in particolare a Milano, ma con ramificazioni in molte città, il gruppo capeggiato da Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero, lotta contemporaneamente contro il revisionismo e contro l'avventurismo. Il secondo obiettivo, messo in discussione dai gruppi più oltranzisti interni ed esterni al movimento, non sarà sempre raggiunto. Mentre entrano in scena gli studenti medi, i protagonisti del Sessantotto, dai leader delle assemblee universitarie ai militanti di base, transitano nei minipartiti dell'estremismo. Quanto più si rinsecchirà il movimento tanto più prenderà sopravvento il gruppo. L'organizzazione è anche un bisogno per chi, incontratosi con la milizia attiva, non ha referenti certi. Insieme alle teorie, le solidarietà studentesche, le amicizie giovanili, la storia delle singole facoltà, la stessa mobilità della popolazione universitaria, formano la trama su cui si innerverà il fenomeno dei gruppi e spiegano le ragioni delle trasmigrazioni da gruppo a gruppo. Una fluidità solo apparentemente in contraddizione con la rigidità ideologica delle singole formazioni. Nel suo itinerario organizzativo, ogni gruppo si cimenterà con gli altri, cercherà d'imporre la sua egemonia e al tempo stesso, contro il rischio dell'isolamento ma non senza trasformismi, sfrutterà le possibili connessioni. Nodo irrisolto rimarrà il rapporto fra autonomia del movimento e centralizzazione. Fra questi due poli oscillerà la storia delle formazioni minoritarie, la costruzione di tanti minipartiti e la loro progressiva ed endemica negazione in un costante alternarsi fra dirczione e spontaneità. Davanti alle fabbriche, con i militanti sindacali e con quelli del Partito comunista, il dibattito è acceso ma non raggiunge le asprezze e le rotture dell'anno successivo: discussioni estenuanti sul revisionismo, la rivoluzione culturale, la natura del capitalismo e delle forze politiche; si contestano l'unità di vertice e l'iniziativa del sindacato. Si raccoglie qualche consenso fra gli operai. Non è difficile passare dalla critica alle commissioni interne, organismi ormai logori e invecchiati, a quella più generale all'organizzazione sindacale. La classe operaia non guarda con fastidio alla presenza studentesca davanti alle fabbriche, è disponibile all'incontro. Rappresenta una novità rispetto al passato, non si tratta del «gruppetto» ma di un movimento, esprime una nuova alleanza sociale. Le cose cambieranno quando i gruppi torneranno con una propria fisionomia, quando scavalcare e denigrare il sindacato sarà il loro disegno principale. Gli studenti si sentono «guardie rosse», debbono portare la linea giusta, debbono vivere la vita del popolo, denunciare il revisionismo contrastare la rinuncia alla rivoluzione e la politica degli accordi di vertice. Sono caratteristiche comuni della milizia del maoista e dell'operaista. Ancora una volta pionieri del partito si fanno gli emmellisti. Dopo una breve e confusa presenza politica nel meridione, sin dall'ottobre '68, l'Unione dei comunisti italiani si autoproclama «nucleo d'acciaio che costruisce il partito». Alimentano il gruppo studenti in cerca di identità, vogliosi di trovare nella pratica sociale una loro dimensione e di mettere la politica al primo posto. Per loro il movimento studentesco è stato un decisivo terreno di sensibilizzazione e maturazione politica, ma proprio per le sue caratteristiche ha dato alla politica una dimensione globale che non sempre si ritrova nella singola esperienza di quartiere o di fabbrica. Sul mito dell'organizzazione si scarica la difficile riconciliazione fra la radicalità del movimento studentesco e la quotidianità della pratica politica. Nel superamento di questa contraddizione nasce l'esigenza di reinterpretare alla luce di una mitica unificazione strategica la stagione del movimento. Senza la comprensione di questo passaggio di fase risulterebbero incomprensibili esperienze come quella dell'Unione, il dogmatismo ideologico e le battaglie di principio che si sviluppano fra i vari gruppi. Attraverso difformi itinerari biografici, dopo l'esaltazione delle giornate d occupazione e l'euforia delle «battaglie», i militanti sperano di superare l'anonimato della gestualità collettiva e la passività di un'assemblearismo inconcludente nel «gruppo». Alla ricerca di una forma più strutturata del fare politica gli studenti incontrano il minoritarismo, subiscono il fascino dell operaismo, l'attrazione del maoismo coi suoi principi comportamentali e con i suoi richiami al «partito». Soggiogati da Operai e capitale di Tronti e dalle letture delle «riviste»; al Nord «battono» le fabbriche: Porto Marghera, la Fiat, la Pirelli, l'Alfa. Il Meridione, con le sue storiche contraddizioni, con le sue masse contadine e popolari, ribelli ma incapaci di reagire al sistema come all'egemonia revisionista, è idealizzato come laboratorio rivoluzionario. L'assalto al municipio di Cutro, nel novembre '67, da parte di braccianti e contadini guidati da militanti del Pcd'I è assunto come simbolo di un forte potenziale antistituzionale. Non si è trattato di un episodio isolato ma può generalizzarsi. Tutto il Sud è pronto a infiammarsi, basta accendere la scintilla della rivoluzione. Sullo sfondo dei vari ripensamenti autocritici dei convegni dei quadri e delle assemblee operai-studenti, solo la pratica politica può risolvere gli annosi conflitti fra operaismo e maoismo. Lo scegliere fra una formazione o l'altra è un passaggio inevitabile in una fase di transizione, ma la prospettiva finale rimane sempre l'unificazione di tutte le forze della nuova sinistra. Anche il successo del singolo gruppo passa per la credibilità che volta per volta saprà dare di questa possibilità. Nell'estate del '68, un segno premonitore di quello che sarà l'autunno caldo, le lotte per l'abolizione delle gabbie salariali. L'innesco delle agitazioni, che presto assumeranno carattere nazionale, è uno sciopero dai forti tratti spontanei nella provincia di Latina. I gruppi non sono ancora una realtà, anche quando dietro c'è un embrione di organizzazione, i volantini degli studenti spesso sono firmati genericamente Movimento studentesco. L'Unione dei comunisti italiani, tra la seconda metà del 1968 e la fine del 1969, sfrutta la crisi di riflusso del movimento studentesco. Il suo sviluppo organizzativo evidenzia un passaggio costante nell'area estremistica: alla carenza di linea politica si supplisce con l'ideologismo. Il gruppo risponde con un sistema dogmatico e una forte organizzazione al diffuso bisogno di superare i limiti dello spontaneismo. Enfatizza il suo proclamarsi partito, presentando questa scelta come una condizione per la definizione di una strategia rivoluzionaria e per un reale radicamento fra le masse. Premesse indispensabili per la definizione della sua linea sono la militanza, l'intervento, la pratica sociale. Sul piano ideologico-teorico il maoismo è la garanzia contro il revisionismo del Pci. L'Unione è la prima organizzazione a staccarsi dal movimento studentesco e a contestare la pratica delle manifestazioni unitarie col sindacato. Alla fine del 1968, in occasione della manifestazione sindacale per la riforma pensionistica, decide in opposizione alle altre componenti del movimento studentesco, di organizzare un contro-corteo. Intanto nelle università le assemblee si dividono sul tema dell'organizzazione. I gruppi prendono il sopravvento mentre l'autonomia del movimento stenta ad affermarsi. L'anno degli studenti sembra prolungarsi nel gennaio del nuovo anno, ma è una breve fiammata. La lotta dell'università di Roma, più volte occupata e sgomberata dalla polizia, si conclude il 27 gennaio, il giorno della visita nella capitale del presidente americano Nixon. I carri armati dei carabinieri entrano nell'università, la città è punteggiata di scontri. Alla facoltà di Magistero, cercando di sfuggire alla polizia, «coadiuvata» nello sgombero dai fascisti, muore lo studente Domenico Congedo. Ormai è la volta degli studenti medi, saranno loro il futuro del movimento. L'università non è più il centro motore delle lotte, tutta l'attenzione si sposta sulle lotte operaie. Con il suo XII congresso, appuntamento atteso senza illusioni, il Pci non riesce a conciliarsi con l'antirevisionismo del movimento. La relazione di Longo riconosce il valore generale della rivolta degli studenti, tuttavia questa scelta non è sufficiente a ridurre le divergenze e la qualità del dissenso interno. Accanto ai temi internazionali e alla concezione del partito, divide la questione dei tempi e dei modi della transizione al comunismo. Dalle diverse risposte a questi interrogativi derivano i contrasti sulla natura e sugli esiti dei conflitti sociali e del loro rapporto col sistema istituzionale e politico. Sarà questo il terreno principale dello scontro col «revisionismo». La prova verrà nel luglio 1969, con la battaglia di corso Traiano a Torino, uno snodo decisivo verso 1 organizzazione del sinistrismo. Alla vigilia delle lotte dell'autunno caldo si definiscono le linee e gli strumenti organizzativi dell'operaismo. Dopo corso Traiano e il deludente esito del convegno nazionale delle avanguardie autonome, la scissione. A settembre il gruppo de «La Classe» dà vita a Potere operaio e il primo novembre esce «Lotta continua». Nel Pci il dissenso si coagula attorno al «Manifesto». La rivista esce dall'estate del 1969: è una novità senza precedenti, il partito è messo sotto accusa dall'interno, da quadri di indubbio prestigio nazionale. Nell'autunno vi sarà la radiazione del gruppo dal partito. Intanto le riviste si schierano più o meno organicamente con i vari gruppi e anche quando la loro posizione rimane autonoma, come nel caso dei «Quaderni piacentini», insistono sul tema dell'organizzazione. Si è ora di fronte a precise strutture politiche, con le loro teorie e pratiche, con i loro apparati, i loro strumenti di propaganda e di reclutamento. Il primo impatto verrà con le lotte operaie dell'autunno. Per l'Unione sarà la crisi: l'astratto «governo degli operai, contadini e studenti» non risveglia le masse, è una retorica evocazione del tutto avulsa dai concreti sviluppi dello scontro contrattuale. Potere operaio al momento della presentazione delle piattaforme sindacali sceglie la scorciatoia del «tutto e subito», isolandosi così dal corpo della classe operaia. Esorcizzando la sconfitta subita all'insegna della «violenza operaia» decide un'ulteriore stretta organizzativa. Non imbrigliata da schemi ideologici precostituiti, Lotta continua non ripiega su se stessa e sfrutta tutte le contraddizioni per estendere la sua influenza su scala nazionale. Dà il massimo sfogo all'autorganizzazione delle lotte, moltiplicando le occasioni di scontro.
Dopo le bombe di piazza Fontana il movimento e i gruppi si sentono braccati: inizia la caccia ali estremista. Alle lotte dell'autunno seguono le battaglie di piazza. Le parole d'ordine sono sempre più violente. Nelle manifestazioni lo squadrismo di destra cerca l'incidente, innesca la provocazione, spesso sotto gli occhi di una polizia compiacente. Alla gioiosità del Sessantotto segue la cupezza degli anni settanta, alla creatività dei cortei studenteschi seguono le barriere dei servizi di ordine. Fra paura del golpe e repressione, sotto lo stillicidio della violenza squadrista, un brusco richiamo all'asprezza dello scontro di classe. L'organizzazione è l'autodifesa, il sovversivismo della piazza con le sue guerriglie urbane rappresenta la disperata e minoritaria replica al sovversivismo dello Stato. |
2. L'autunno caldo
Le lotte operaie del 1968-69 portano a compimento un intero ciclo della vita nazionale, mutano gli scenari sindacali, intervengono prepotentemente nell'assetto politico, fanno saltare precari equilibri economici introducendo nuovi livelli retributivi e diverse condizioni di democrazia in fabbrica. In concomitanza con le pesanti congiunture internazionali, la radicale messa in discussione delle basi su cui si fonda l'asfittico sistema produttivo, già sconvolto dalle ondate della «riscossa» operaia dei primi anni sessanta, produce un ulteriore aggravamento della crisi economica. Nella confusione del quadro politico, l'azione delle forze di governo è priva di ogni capacità e volontà riformatrice; manca la consapevolezza delle profonde correzioni che vanno introdotte per sanare gli squilibri economici e sociali, prevalgono le ipoteche di un sistema di potere fatto di assistenzialismo e di un equivoco intreccio tra industria pubblica e industria privata. Evidenzia questi limiti il Progetto 80 presentato ad aprile del '69 a cura del Ministero del bilancio e della programmazione. Il documento, pur registrando la gravità dei problemi economici, non va oltre l'enunciazione dei possibili interventi correttivi senza esplicitare i tempi e i modi di una loro concretizzazione. L' analisi rimane sterile e, sia pure nell'ambito del meccanismo di sviluppo esistente, non offre terapie. Anche le timide intenzioni e le illusioni riformistiche presenti nel Progetto si scontrano con la mancanza di respiro dei gruppi dominanti e con la resistenza delle forze più conservatrici dello schieramento industriale. I fatti hanno dimostrato che non basta entrare nella «stanza dei bottoni». Il riformismo socialista ha scontato la sua sottovalutazione del nodo di fondo: la rottura del sistema di potere della Dc e del suo monopolio politico. Le stesse aperture manifestatesi nella cultura politica e sociale, esempio più emblematico il convegno economico di San Pellegrino, sono state sacrificate all'altare dell'interclassismo democristiano. Il «decennio» operaio apertosi agli inizi degli anni sessanta, in uno sviluppo non lineare e non privo di battute di arresto, trova il suo culmine nella nuova stagione di lotte. Nel 1969 gli scioperi raggiungono il massimo livello dell'intero dopoguerra. Le ore di lavoro perdute per sciopero arrivano a 302 milioni a fronte dei 74 milioni del 1968. Un tetto che non si ripeterà: 146 milioni nel 1970; 103 nel 1971; 163 nel 1973. È il momento degli aumenti uguali per tutti, delle quaranta ore lavorative, del controllo sull'organizzazione del lavoro, delle trattative senza tregua, dei delegati e delle assemblee, delle conquiste realizzate prima in fabbrica e poi imposte nei contratti, dei grandi contratti nazionali e delle centinaia di accordi aziendali. Nel periodo '66-'68 la parola d'ordine di una nuova maggioranza di governo alternativa al centro-sinistra era stata accompagnata da una grande campagna sul ruolo del sindacato. Commentando quest'operazione di «pansindacalizzazione», Sergio Bologna e Francesco Ciafaloni sui «Quaderni piacentini» scrivono: «... fu in realtà un periodo di grande impegno ideologico ed organizzativo del movimento operaio per far passare il pansindacalismo. Le grandi lotte dei metalmeccanici del '66 ebbero un'importanza decisiva a questo proposito. A chi chiedeva nuova organizzazione politica o partito in fabbrica, la dirczione comunista rispondeva: "in fabbrica ci sta solo il sindacato; bisogna puntare tutto sull'unità tra le tre confederazioni, le lotte operaie debbono essere viste come momento di pressione extraparlamentare per l'attività del gruppo delle sinistre alla Camera"» . Dai rinnovi contrattuali del 1962, la politicizzazione delle lotte operaie è tema ricorrente nella cultura della nuova sinistra, è il centro concettuale della critica al revisionismo e alla sua visione della lotta di fabbrica. Attorno a questa disputa si misura il conflitto fra operaisti e sindacato. Già nel 1966, al petrolchimico di Porto Marghera come nelle altre fabbriche-laboratorio dei gruppi, esplodono le contraddizioni fra un uso legalitario delle lotte e un uso contestativo generale, immediatamente rivoluzionario, della centralità operaia. Due visioni si scontrano: la lotta unitaria del sindacato che spinge nel senso di un mutamento radicale degli indirizzi di governo e il progetto della centralità operaia che vuole assumere in proprio il compito di interrompere il ciclo capitalistico e quindi le sue proiezioni sul quadro istituzionale. La presenza dei gruppi de «La Classe» getta in quella fase i primi sedimenti della stagione di lotta dell'autunno caldo: «Non vi è dubbio che è Potere operaio — più che non i sindacati — a predisporre il terreno delle lotte rivendicative dal '67 al '68. Nocività e qualifiche sono i temi di intervento degli attivisti di Potere operaio: 1 obiettivo è far crescere attraverso le lotte di reparto uno stato di insubordinazione generale su cui costruire una organizzazione di base in grado di esercitare un reale controllo sul sindacato determinando gli obiettivi e i tempi e i modi di intervento» . Le lotte operaie del 1968 a Porto Marghera, alla Fiat, alla Saint Gobain, vedono intensificarsi la presenza studentesca davanti alle fabbriche. Ai militanti de «La Classe» e agli ex dei «Quaderni rossi» si affiancano i nuovi quadri del movimento. Non è una generica predicazione rivoluzionaria ma una pratica politica che, sia pure in modo confuso, concorre a far crescere l'esigenza di un sindacalismo in cui la base operaia abbia un peso maggiore. Le grandi fabbriche diventano laboratori delle prove generali dell' estremismo, il terreno su cui sperimentare la praticabilità dell'inasprimento dello scontro sociale. Due movimenti, quello operaio e quello studentesco, entrambi proiettati in una visione politica generale, si confrontano su obiettivi, forme di lotta e strategie. A differenza di quanto è accaduto in Francia, il sindacato italiano tenta la saldatura tra il mondo del lavoro e il vento di rinnovamento di cui si è fatto portatore il movimento degli studenti. È una dialettica difficile, che implica scontri e polemiche. In questo cimento l'organizzazione sindacale, sconfiggendo burocratismi e sclerotizzazioni, rinnova se stessa, conosce un più vitale contatto con i lavoratori, modifica la qualità della partecipazione, eleva il tono politico delle piattaforme, sperimenta nuove forme di lotta. In fabbrica si scopre l'assemblea, ci si batte per una nuova democrazia, si rivendica maggiore potere e una partecipazione dei lavoratori alle scelte del sindacato e nella vita delle aziende, si vuole intervenire sulla qualità del lavoro, sulla sua organizzazione, sul sistema delle qualifiche. Per la classe operaia non si tratta più solo di un aumento dei salari e di una modifica nella distribuzione del reddito nazionale, ma di questioni più generali che investono le condizioni di vita nei luoghi di lavoro e nella società ed esigono un diverso ordine economico, sociale e politico. Nelle novità organizzative, dai delegati ai consigli di fabbrica, e nella conduzione delle lotte nascono dal basso una nuova stagione unitaria e una spinta decisiva nei confronti delle tré organizzazioni sindacali. Nella prima metà del 1969, nella Uilm, appare netta la vittoria della corrente di sinistra guidata da Giorgio Benvenuto. Di fronte alla scissione socialista matura la decisione dei dirigenti di quella organizzazione di rimanere nel Psi. Un analogo spostamento a sinistra si verifica nella Fim-Cisl: Macario e Camiti, presentandosi con piattaforme programmatiche avanzate, dichiarano la fine di ogni collateralismo con la Dc. Le Acli si pronunciano per la fine di ogni stretta dipendenza dal partito, rinunciano a presentare propri candidati nelle liste democristiane e lasciano libertà di voto ai propri iscritti. Livio Labor, il presidente dell'associazione, va oltre: dà le dimissioni e preannuncia la costituzione dell'Acpol, Movimento politico dei lavoratori cristiani. Nella prospettiva di un nuovo sindacato unitario, la Cgil decide l'incompatibilità fra cariche sindacali e cariche di partito. Finisce per tutti l'epoca della cinghia di trasmissione. L'autonomia sindacale diventa la bandiera della nuova fase, mentre l'azione complessiva del sindacato si politicizza. Il sindacato in questa sua rigenerazione si misura con la cultura della nuova sinistra contrastandone, al tempo stesso, le spinte più oltranziste. Contemporaneamente scattano le controtendenze: le forze ostili all'unità sindacale stimolano le manovre scissioniste dei settori repubblicani e socialdemocratici della Uil. L'unità di base si scontra con la lunga, defaticante, mediazione dei vertici sindacali. Nel dicembre '68 l'Intersind firma l'accordo per l'abolizione delle zone salariali. Il padronato privato ancora resiste, ci vorrà la grande mobilitazione del 12 febbraio. È lo sciopero nazionale, vi partecipano i lavoratori di tutte le zone comprese quelle al primo posto nella scala retributiva. La Confindustria è costretta alla firma. Sempre nel febbraio, lo sciopero per le pensioni vince le ultime resistenze del governo; in aprile i lavoratori delle fabbriche si uniranno agli statali che rivendicano la cancellazione delle «taglie» sugli scioperi brevi. Un susseguirsi di lotte aziendali prepara il clima dell'autunno. Alla Marzotto di Valdagno l'occupazione, sostenuta dagli studenti, dura da gennaio a febbraio. A conclusione si strappa un accordo unitario che sancisce aumenti retributivi e il riconoscimento dei delegati. Alla Pirelli è sconfitto il cosiddetto «decretone» padronale, un tentativo di anticipare la scadenza contrattuale isolandola dal contesto generale delle lotte per ammortizzare e fiaccare la combattività operaia. In molte realtà il padronato reagisce alle lotte attizzando crumiri, guardiani e polizia contro gli operai. A Battipaglia, il 9 aprile 1969, la polizia spara contro i braccianti, uccide un lavoratore di 19 anni e una maestra che sta assistendo agli scontri. Dopo un'aspra lotta i braccianti conquistano, fra l'altro, il controllo sul collocamento. Alla Rhodiatoce di Pallanza si lotta su ambienti e ritmi di lavoro, dopo l'occupazione dello stabilimento la vittoria. A Roma si conclude positivamente la strenua lotta dell'Apollon. In ogni lotta accanto agli operai ci sono gli studenti: una minoranza attivissima. Ovunque nascono sul modello torinese le Assemblee operai-studenti, i comitati di base. Alle lotte aziendali si affiancano le lotte per i contratti nazionali. È alla Fiat che guarda l'intero movimento. Per tutto l'anno la grande azienda sarà al centro dell'attenzione sindacale, politica e dei gruppi. La produzione tira. In primavera quindicimila assunzioni, per lo più immigrati del Sud. Scrive Guido Viale: «L'arrivo dei nuovi assunti mette in chiaro come Torino sia ormai un punto di concentrazione di tutte le contraddizioni dello sviluppo capitalistico post-bellico». Affrontando la condizione operaia e resistenza quotidiana che spetta a chi vive l'esperienza Fiat prosegue: «II nuovo punto d'arrivo di ciò che questa società offre ai proletari; la solitudine di una vita senza radici, senza amici, spesso senza parenti e conoscenti, la mutilazione di una separazione violenta fra essi, fatta di miseria e di centinaia di chilometri di distanza....» . Si sviluppano le agitazioni di reparto, fra contestazioni al sindacato e spontaneità operaia, sono strappati accordi parziali su orario, cottimo, straordinari, delegati. La lotta comincia alle officine ausiliarie. Il Psiup vuole accelerare l'istituzione dei delegati, nuova figura di operaio che deve controllare i cicli produttivi e gli orari in fabbrica. La lotta, fatta propria dal sindacato, si estende all'abolizione della terza categoria. Presto la mobilitazione coinvolge altri reparti, ognuno avanza le sue richieste. La parola d'ordine generale diventa: «lavorare meno e guadagnare di più». Il rapido accordo parziale non spegne l'agitazione. In giugno il corteo interno di cinquemila operai si conclude con l'assemblea dentro la fabbrica: cinquanta lire l'ora d'aumento e seconda categoria per tutti. Si susseguono le rivendicazioni e le lotte di reparto. I sindacati sono spesso scavalcati. I contrasti riguardano la natura delle richieste, i tempi e i modi della lotta, la firma degli accordi e il loro successivo superamento. Si ottengono i delegati: ogni duecentocinquanta operai un delegato, deve controllare le tabelle istituite con l'accordo del 1967. I gruppi ne contestano la funzione verticistica. Di lì a breve scatta la lotta dell'Officina 54. I cortei interni invadono i piazzali. La direzione aziendale è costretta a trattare con una rappresentanza operaia, poi si conquista un altro accordo aziendale: alcuni aumenti, per una media di venti lire, e l'istituzione di una categoria inventata: la «terza super». Il 3 luglio, dopo cinquanta giorni di lotta alla Fiat, i fatti di corso Traiano. Il volantino a diffusione nazionale dell'Assemblea studenti-operai li definirà «non un episodio isolato o un'esplosione incontrollata di rivolta» ma «il punto più alto di autonomia politica e organizzativa finora raggiunta dalle lotte operaie distruggendo ogni capacità di controllo sindacale» . Il sindacato ha proclamato lo sciopero per il blocco degli affitti. Operai e studenti si affollano davanti ai cancelli dell'officina Mirafiori: «È una prova di forza, una manifestazione operaia massiccia al di fuori e contro sindacati e partiti» . Intervengono le cariche della polizia, immediata la reazione: «Cominciano gli scontri. Il corteo si forma di nuovo più lontano, e si muove raggiungendo corso Traiano. Arriva la polizia, carica di nuovo, furiosamente. Ma poliziotti, padroni e governo hanno fatto male i conti. In poco tempo, non sono solo le avanguardie operaie e studentesche a sostenere gli scontri, ma tutta la popolazione proletaria del quartiere. Si formano le barricate, si risponde con cariche alle cariche della polizia. Per ore ed ore la battaglia continua e la polizia è costretta a ritirarsi. Il corteo non serve più, è la lotta di massa che conta. Non è una lotta di difesa: mentre gli scontri si fanno più duri nella zona di corso Traiano, la lotta contagia altre zone della città, dal comune di Nichelino a borgo San Pietro, a Moncalieri. Dappertutto le barricate le pietre, il fuoco vengono opposti agli attacchi della polizia» . Il giorno dopo cade il precario governo Rumor. L'Assemblea operai e studenti non ha dubbi: è merito della battaglia di Torino. Ormai la lotta è capace di coprire tutti i terreni di scontro. Il suo significato è sintetizzato dallo slogan: «Cosa vogliamo: tutto». Di fatto nasce in quelle giornate il «partito» di Mirafiori. L'«antirevisionismo» deve dimostrare a tutti i costi che il movimento di classe è libero dal gioco del Pci e dei sindacati: «II grande programma di inserimento del Pci al governo viene svuotato dalla distruzione progressiva della influenza del Pci sui movimenti della classe operaia». E nel perseguimento di questo obiettivo il nesso stretto fra contestazione del Pci e del sindacato e rafforzamento dell'organizzazione «autonoma»: «La ricchezza politica della lotta Fiat, la sua forza di massa, permettono oggi a tutta la classe operaia italiana di passare a una fase di lotta sociale generale su obiettivi, forme e tempi non più fissati in base alle esigenze dello sviluppo capitalistico, dal sindacato e dal partito ma interamente determinati dalla organizzazione autonoma degli operai» . Dopo corso Traiano si lancia l'appuntamento del convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie, per organizzare «nel vivo delle lotte la marcia verso la presa del potere». Nella lotta della Fiat si combinano il rivendicazionismo salariale dei gruppi provenienti da «La classe» e i temi dell'autolimitazione della produzione e del protagonismo assembleare, portati avanti dai gruppi più organici al movimento studentesco torinese. Una miscela di anarco-sindacalismo, termine molto usato nel dibattito sull'organizzazione che si sviluppa a ridosso delle lotte dell'autunno nell'area operaista. Nell'estate, la situazione politica si fa sempre più torbida. Cresce la tensione interna al Psi fino alla scissione della componente socialdemocratica. Alla crisi di governo del luglio segue il monocolore Rumor. Alla vigilia della scadenza contrattuale si respira aria di spostamento a destra. In molti ambienti circola l'ipotesi di un possibile «colpo di Stato». Sfruttando la precarietà della situazione, a settembre la Fiat anticipa lo scontro contrattuale. La principale fabbrica italiana dichiara la serrata. Contro lo sciopero dell'officina 32 di Mirafiori 35.000 operai sono sospesi dal lavoro. La risposta dei metalmeccanici è la manifestazione del 25 settembre a Torino. A Milano, la serrata alla Bicocca. A Torino come a Milano, lo slogan è uno solo «Agnelli-Pirelli, ladri gemelli». Seguono, imponenti, le manifestazioni di Milano, Bologna, Firenze, Genova. Accanto alla vertenza dei metalmeccanici le lotte degli edili e dei chimici. È un succedersi di appuntamenti. A Milano la polizia carica i lavoratori davanti alla filiale della Fiat. Fra gruppi e sindacato prosegue la polemica. Si arriva alla manifestazione al Salone dell'auto di Torino, i sindacati si accodano dopo averla definita «una scelta provocatoria». Al rientro in fabbrica esplode il «luddismo», poi lo sciopero. La stampa è un coro: «estremisti, vandali, teppisti!». La Fiat risponde con la rappresaglia: sospensione di 96 operai della Mirafiori, 15 del Lingotto, 15 di Rivalta. Per lo più sono operai che partecipano ali'Assemblea operai-studenti. Dopo un mese la rappresaglia si estende a quadri sindacali e militanti del Psiup e del Pci. A Torino si organizza il «Processo alla Fiat», promotore il sindacato. Agnelli ritira le sospensioni. La lotta dalle fabbriche si estende alla piazza: il 27 ottobre a Pisa dopo l'intervento dei fascisti contro gli studenti, la battaglia con la polizia si conclude con la morte dello studente Cesare Pardini ucciso da un candelotto lacrimogeno. Il 7 novembre la firma del contratto degli edili. Per Potere operaio è il primo dei «contratti bidone», la sua risposta è «no alla tregua, sì alla violenza operaia». Il 19 novembre è lo sciopero generale delle categorie in lotta. Non sono indette manifestazioni. Al teatro Lirico di Milano è convocata un'assemblea dei sindacati per discutere l'andamento delle trattative. L'Unione dei comunisti (m-1) organizza un corteo di protesta, giunto nei pressi del teatro Lirico in via Larga la carica della polizia: una tragica conclusione la morte del giovane agente di polizia Antonio Annarumma.
S. Bologna - F. Ciafaloni, I tecnici come produttori e come prodotto, «Quaderni piacentini», n. 37, marzo 1969; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1968-1972», Edizioni Gulliver, 1978, pp. 165-166.
E. Pasetto - G. Pupillo, II gruppo «Potere operaio» nelle lotte di i Porto Marghera, primavera '66 - primavera '70,«Classe», n. 3, novembre 1970.
G. Viale, «II sessantotto tra rivoluzione e restaurazione», Mazzotta, 1978, p. 158.
Fiat: La lotta continua, volantino a diffusione nazionale dell'assemblea studenti-operai di Torino, in «Quaderni piacentini», n. 38, 1969.
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3.Contro l'avanzata delle forze democratiche
A pochi giorni dalla strage di piazza Fontana, il quotidiano inglese «The Observer», commentando la situazione politica italiana, usa l'espressione «strategia della tensione». Secondo questa interpretazione, il precipitare degli avvenimenti dall'instabilità politica alla minaccia di un ricorso anticipato alle urne, dai primi atti di terrorismo alle bombe di Milano, rientrerebbero in un disegno preordinato a cui, si lascia chiaramente intendere, concorrono forze interne e internazionali. Lo stesso quotidiano, insieme ad altri organi di stampa estera, aveva già reso noto un rapporto segreto inviato ai colonnelli greci sulla possibilità di un colpo di Stato in Italia. L'espressione «strategia della tensione» diverrà tristemente nota negli anni settanta. Lo schema interpretativo ben si adatta al torbido susseguirsi di oscuri episodi politici, all'escalation di atti terroristici, all'orditura di complotti, al dilagare della violenza politica. Già nel corso del 1968 la reazione ha giocato le sue carte. Il potere accademico più retrivo non ha esitato ad attizzare lo squadrismo fascista, lo Stato ha usato pesantemente la repressione, l'opinione moderata è scesa in campo col suo armamentario ideologico per appellarsi al perbenismo conservatore. Il Sessantotto incute paura alle classi dominanti. Esse si chiedono allarmate: cosa sta accadendo nel paese? Quali tensioni lo agitano e quale sbocco politico possono produrre? Il Pci ha avuto un consistente aumento elettorale, ma non si tratta tanto dei nuovi rapporti di forza parlamentari quanto, più radicalmente, degli effetti generali che il movimento di contestazione giovanile produce nell'insieme della società. Le spinte al cambiamento di indirizzi che premono sulla Dc non trovano corrispondenza nei nuovi assetti del partito; dopo il voto, si appanna l'egemonia morotea e prendono il sopravvento i dorotei, la lotta interna diventa faida tra correnti, fra uomini delle stesse correnti. Aldo Moro, grande accusato per i rovesci elettorali, guarda con riflessiva attenzione ai fermenti giovanili, ne intuisce il significato ideale tuttavia non riesce a formulare una loro trasposizione politica. Sembra voler mettere fra parentesi il mondo politico per rivolgersi alla società civile. Sconfitto, accenna a nuove politiche dell'«attenzione» come le definisce il leader repubblicano Ugo La Malfa. Nel paese cresce un immaginario collettivo che anela al cambiamento e mette in discussione alla radice il vecchio ordine. Il suo potenziale sviluppo non è un interrogativo retorico ma un'incognita che grava e accelera la crisi del sistema politico. Per le forze moderate e conservatrici occorre impedire la saldatura fra movimento operaio e democratico e nuove dinamiche sociali. Drammatizzare la situazione presentandola in preda al caos della contestazione ed enfatizzare la crisi di rappresentanza del Pci nei confronti dei nuovi conflitti sociali serve per delegittimarlo come possibile forza di governo. La destra, in assenza di un rapido ripristino dell'ordine sociale si dichiara pronta a contrastare la violenza con la violenza. Nel Msi di Almirante si ricompatta il dissenso della seconda metà degli anni sessanta. Nell'autunno '69, motivando il suo rientro nel partito, l'ideologo oltranzista Pino Rauti su «Ordine nuovo» seconda serie (la prima aveva interrotto le pubblicazioni nel '56) scrive: «Bisogna far quadrato di fronte alla situazione d'emergenza creata dall'autunno caldo». Non dello stesso avviso Clemente Graziani, uno dei teorici dello stragismo, che formando nel dicembre '69 l'omonimo gruppo Ordine nuovo ribadisce la linea dell'avanguardia rivoluzionaria per sovvertire il sistema democratico. Agli organi dello Stato, polizia e servizi segreti sono noti i movimenti dei vari gruppi eversivi di destra. Le vicende del commissario Pasquale Juliano confermano che a partire dall'aprile '69 si conoscono le intenzioni e le finalità del gruppo padovano di Freda e Ventura. La Dc cerca di sfruttare la confusione del clima politico e l'ondata contestativa per riproporre la sua centralità. Vuole presentarsi agli occhi dell'opinione pubblica come l'unico partito capace di assicurare la tenuta del quadro legalitario e di difendere il paese da avventure dall'esito incerto. Concorre alla generale incertezza la battaglia per la successione al Quirinale. Alla vigilia della scadenza del suo mandato, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat si fa ispiratore della scissione del Psu e interprete di una linea repressiva e da blocco d'ordine. Nella Dc, Fanfani lascia apertamente intendere la sua disponibilità e vocazione a restaurare la legge e l'ordine nel paese. Scrive Giorgio Galli: «agisce su di lui la suggestione del De Gaulle del giugno '68 che scioglie le camere e portando alla vittoria il blocco d'ordine si prende la rivincita del maggio francese». E ancora: «la posizione e i contatti di Fanfani in questo periodo sono ambigui ed oscuri come molti degli eventi italiani nell'anno di avvio della strategia della tensione: il 1969» . Nell'autunno di quell'anno rincontro fra Fanfani e l'ambasciatore americano a Roma, Graham Martin. I due convergono sulla necessità di contenere l'avanzata dei comunisti, nel corso del colloquio si parla anche di una ripresa dei finanziamenti Cia alla Dc, finanziamenti interrotti nel 1967. La proposta non ebbe esito, ma rimangono gli interrogativi sul ruolo di Fanfani. Candidandosi alla presidenza della Repubblica cerca il sostegno delle destre, dopo aver acquisito negli anni precedenti una certa credibilità a sinistra per le sue posizioni in politica estera. Con il termine «fanfascismo» Lotta continua sintetizzerà le inclinazioni del leader della Dc a una repubblica presidenziale e a una stretta autoritaria. In un quadro fortemente dinamico, le riforme strappate dalla crescente combattività operaia e democratica (la fine della divisione del paese nelle «zone salariali», la riforma pensionistica, lo statuto dei lavoratori) e i risultati delle lotte contrattuali scatenano molte controtendenze. La destra messa fuori gioco negli anni precedenti cerca la sua occasione. Sfrutta gli spazi che gli offre la sfrenata campagna moderata, una vera orchestrazione stampa e politica per arginare con ogni mezzo la contestazione «comunista». Su tutto il sistema democratico incombe l'assurda pregiudiziale nei confronti del Partito comunista. Il rischio fondamentale è il suo avvento al governo, tutto il resto è secondario. Contro questa possibilità riemerge in forme inedite il «sovversivismo» delle classi dominanti. Si innesta un circuito di complementarità fra sovversivismo di Stato e sovversivismo sociale. In questa spirale si costruiscono e si occultano trame eversive, si persegue la strategia delle bombe, esplode il neosquadrismo di destra, dilaga la violenza politica, prendono corpo le prime forme del terrorismo rosso. Vari sistemi eversivi entrano in risonanza fra loro e formano il tessuto connettivo della strategia della tensione. Interne e funzionali a questa dinamica sono le deviazioni dei Servizi segreti. L'ostinazione della Dc nel confermare la sua centralità diventa accanita difesa del suo sistema di potere e a questo fine l'uso spregiudicato delle montature stampa, l'apertura e la chiusura delle inchieste giudiziarie a seconda delle fasi politiche e del colore di cui si ammantano i vari terrorismi. Fenomeni eversivi endogeni, originati da culture, gruppi sociali e politici diversi, si nutrono di questo clima favoriti dalle tecniche di depistaggio, dai segreti di Stato opportunamente invocati e dal ruolo del principale partito di governo. L'uso politico del terrorismo diventa parte integrante del caso italiano. Le tensioni e le aspirazioni che animano la rivolta degli studenti irrompono nella società italiana immettendovi un forte bisogno di rinnovamento e, sull'onda di un grande movimento, danno parvenza di credibilità al desiderio di una nuova etica e di un nuovo assetto sociale. Il vento del «tutto e subito» soffia in tutte le direzioni, agita ideali collettivi ma anche pericolose frettolosità. Tanto più forti saranno le illusioni utopiche di una rivoluzione onnicomprensiva, tanto più brusche saranno le cadute nella radicalità di un inedito sommovimento. Le pessimistiche intuizioni pasoliniane suonano come ammonimenti conservatori di fronte alle entusiastiche curiosità dei numerosi convertiti ad un marxismo eterodosso e confusionario, ai vitalismi dei nuovi esegeti della classe operaia. In questo processo si modifica la dislocazione ideale dei vari strati sociali, nuovi valori si affermano e diventano componente decisiva della battaglia democratica e di progresso. Una prima prova verrà con la stagione contrattuale dell'autunno '69. Il movimento sindacale si confronta con le nuove tematiche assumendo come proprie istanze la partecipazione e l'egualitarismo, la lotta per una qualità diversa della vita e del progresso civile. La classe operaia è chiamata a farsi soggetto della trasformazione economico-sociale e del rinnovamento del tradizionalismo politico, ad essere parte essenziale nella costruzione del nuovo blocco di forze impegnate sul terreno del progresso democratico. Le lotte dell'autunno saranno rivelatrici. Il nuovo del Sessantotto non è un episodio. Dopo l'anno degli studenti viene l'autunno degli operai. Contro si scatena il sovversivismo di Stato, in un inquietante parallelismo con il diffondersi del neosquadrismo fascista e del sovversivismo di sinistra. All'ombra della equivoca teoria degli «opposti estremismi» la Dc cerca la sua nuova centralità. Oggettivamente funzionale a questo disegno il sovversivismo «rosso». Le teorie della lotta armata, revocazione della violenza contro la violenza dello Stato non sono estranee alla cultura del sinistrismo che ha animato la stagione del sessantotto. La critica alla democrazia si sposa alle follie armate, la violenza diventa contemporaneamente difesa e attacco di fronte al rischio autoritario-repressivo, espressione di paura e di isolamento. Sembra quasi che un disegno preordinato lavori per sospingere fuori della legalità democratica un movimento che pone in discussione l'assetto del potere. Le classi dominanti reagiscono a quelli che lo psicologo Fachinelli, sui «Quaderni piacentini», chiama «i desideri dissidenti» di una generazione non solo negandoli ma usando la repressione e il sovversivismo di Stato, e — per miope calcolo politico — augurandosi il prevalere delle sue componenti più avventuristiche. La strategia delle bombe e le trame eversive di destra sono parte di questo disegno: loro obiettivo impedire l'avanzata delle forze democratiche. Contro il duplice rischio dell'omologazione e dello scivolamento antistituzionale deve battersi il Pci operando su due fronti non meccanicamente convergenti: interpretare il nuovo senza troncare con la sua storia, contemporaneamente vigilare e agire sulla democratizzazione della struttura statuale pena la vanificazione dei fondamenti dello stesso ordinamento costituzionale. Alterne sequenze caratterizzano il periodo che va dal dopo sessantotto al terremoto elettorale del 20 giugno '76: le lotte operaie dell'autunno caldo: le bombe di piazza Fontana; un neofascismo che sfrutta volta per volta la violenza squadristica e il doppiopetto di Almirante; la strategia degli oppositi estemismi; l'uccisione Calabresi e il cadavere di Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate; la svolta moderata che segue al voto del '72; la mobilitazione democratica contro i rischi dell'involuzione a destra; il referendum sul divorzio e le battaglie per i diritti civili; l'offensiva conservatrice di Fanfani; il terrorismo «rosso» e infine gli sconvolgimenti politici del '75 e del '76. Dentro questa complessa vicenda si situa l'ascesa e il fallimento del gruppismo sessantottesco, in questo itinerario si determinano le ragioni del suo espandersi e del suo progressivo polverizzarsi in questo scontro fra rinnovamento e conservazione si delinea il suo conflitto con le tradizioni culturali del movimento operaio nonché il suo scivolamento sul terreno antidemocratico fino alle mimetizzazioni ai bordi e dentro il terrorismo.
Se la storia del Sessantotto è inscindibile dalla sua «preistoria», dalle teorie che lo hanno prodotto e quindi dalla prima genesi del minoritarismo, la storia del terrorismo «rosso» finisce con l'essere inscindibile nei suoi primordi con lo sviluppo delle varie organizzazioni extraparlamentari e dai loro ripetuti fallimenti, complici le omertà e le rimozioni, sorgono le prime leve delle formazioni armate.
G. Galli, «Fanfani», Feltrinelli, 1975, p. 109.
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4.Piazza Fontana
Nel corso del 1969 si registra un'ondata di azioni eversive: 312 attentati con bombe, la stragrande maggioranza risulterà opera di gruppi di destra. La città più colpita è Milano. Il 27 gennaio una bomba esplode davanti a una sede turistica spagnola, non ci sono vittime. Lo stesso giorno un attentato ad una sezione del Pci. Il 30 gennaio è la volta di un negozio di dischi della Rca. Il 2 marzo esplosivi danneggiano la tipografia de «l'Unità». Una carica di tritolo è sistemata dentro una galleria d'arte. L'8 aprile scoppia una bomba davanti alla Borsa valori; bottiglie molotov davanti all'Hotel Commercio feriscono due giovani. Il 25 aprile (la data è già un simbolo) una bomba è collocata all'interno del padiglione Fiat della Fiera di Milano, sono ferite 19 persone; lo stesso giorno l'attentato all'Ufficio cambi della stazione. Tra 1'8 e il 9 agosto le bombe ai treni su varie linee ferroviarie, il bilancio è il ferimento di 8 persone. Gli attentati, come si riscontrerà successivamente, sono opera del gruppo neofascista di Freda e Ventura. Ancora a Milano una bomba rudimentale esplode davanti la casa dell'addetto commerciale cubano e il 30 agosto nel cortile del Palazzo Comunale, è ritrovata una bomba inesplosa. Il depistaggio inizia con le bombe del 25 aprile alla Fiera campionaria. Autori dell'attentato sono indicati gli anarchici. Nel quadro dell'estremismo italiano della seconda metà degli anni sessanta gli anarchici hanno un ruolo del tutto marginale, ormai superati dal nuovo gruppismo. A differenza di altri movimenti studenteschi europei, in particolare di quello francese, nel corso del Sessantotto in Italia poco si sono sentiti e visti, sono la parte più debole e isolata del movimento. Alla campagna d'opinione finalizzata a costruire un clima di paura lo «studente» non serve; «anarchico», «anarchia» sono invece messaggi che evocano il nichilismo, il terrore, le bombe. Peraltro le esili organizzazioni anarchiche sono proprio per la loro fluidità un facile terreno di infiltrazioni, di strumentalizzazioni. Già nella seconda metà del '68 nascono equivoci raggruppamenti come i Nazi-maoisti, Lotta di popolo, gli Anarco-fascisti. Mentre si formano i prodromi di quella destra radicale che alimenterà lo squadrismo e il terrorismo nero degli anni settanta, equivoci personaggi si aggirano nella confusione ideologica di frange marginali del movimento infiltrandosi nelle aree più deboli. E questo il caso del circolo anarchico XXII marzo. Avola, la Bussola, Battipaglia: la polizia interviene violenta contro lavoratori e studenti. Le sinistre chiedono il disarmo delle forze dell'ordine mentre la Dc rivendica il diritto dello Stato di difendersi contro le violenze. Il movimento studentesco ha avuto la sua prima vittima: Domenico Congedo, lo studente morto al Magistero. I giornali sono bollettini di guerra, evocano catastrofi sociali e guardano con allarme alle scadenze contrattuali dell'autunno. Deliberatamente si ingigantiscono le difficoltà sindacali presentando le fabbriche in mano agli estremisti di sinistra. Sempre di più «contestazione», la parola magica del Sessantotto, nell'opinione moderata e perbenista diventa sinonimo di violenza. La tensione cresce nell estate in concomitanza con la crisi di governo. La paura del golpe è l'ossessione dell editore Giangiacomo Feltrinelli: Estate 1969: la minaccia di un colpo di Stato all'italiana è il titolo di un suo opuscolo di quei mesi. Nello stesso periodo hanno vita i Gap (Gruppi di azione partigiana). Gli scontri di corso Traiano a Torino, sono opportunamente presentati come un'anticipazione dell'autunno. Il grande padronato replica alle piattaforme sindacali con la rappresaglia; Agnelli e Pirelli sono in prima fila su questa linea oltranzista. L'unificazione delle lotte aziendali e i processi in atto nei vari sindacati compattano il fronte operaio ma intanto nelle grandi fabbriche lo scontro tra sindacati ed estremismo si fa più duro: anche i gruppi, come il padronato, hanno ben chiaro che la conclusione della vertenza contrattuale darà più forza politica al sindacato. A Roma un volantino, distribuito a novembre, della Federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale italiana incita gli ex combattenti a non farsi «strumentalizzare per un colpo di Stato reazionario». Le forze armate sono in subbuglio. Molto scalpore desta il discorso del comandante del distretto militare di Monza: «Stante l'attuale situazione di disordine nelle fabbriche e nelle scuole, l'esercito ha il compito di difendere le frontiere interne del paese; l'esercito è l'unico baluardo contro ogni disordine e l'anarchia» . A Roma un intenso riorganizzarsi dei gruppi paramilitari fascisti attorno al principe nero Junio Borghese. Ugo La Malfa e il socialdemocratico Mario Tanassi sferrano un duro attacco ai lavoratori in lotta. Gli fa il coro la Confindustria: il potere operaio sta sostituendosi al Parlamento, vuole stabilire un rapporto diretto con il governo creando un «sovvertimento in tutto il sistema politico». Pietro Nenni paragona la situazione agli anni che precedettero il fascismo. La giornata di sciopero nazionale del 19 novembre ha un epilogo drammatico, a Milano la morte dell'agente Antonio Annarumma. Dal Quirinale, Giuseppe Saragat, ancora non sono chiare le circostanze del tragico episodio, lo definisce un «barbaro assassinio». È un invito alla repressione, un giudizio a senso unico: il pericolo viene dall'estremismo «rosso». Il segretario del Msi, Giorgio Almirante intervistato dal settimanale tedesco «Der Spiegel», afferma che le organizzazioni giovanili del suo partito si preparano alla guerra civile: contro il comunismo occorrono misure militari. Su «Epoca» il giornalista Pietro Zullino, vicino al partito socialdemocratico, dichiara che in Italia ormai occorre una Repubblica presidenziale e se la «confusione dovesse aumentare» spetterebbe alle Forze armate ristabilire la legalità democratica. All'inizio di dicembre due settimanali inglesi, «The Guardian» e «The Observer», pubblicano il già citato dossier inviato dal Ministero degli Esteri di Atene all'ambasciatore greco a Roma, sulle possibilità di colpo di Stato in Italia. «The Observer» è ancora più preciso: «un gruppo di elementi di estrema destra e ufficiali sta tramando in Italia un colpo di Stato militare». Sarebbero aiutati in questi propositi dal governo greco. Secondo varie ricostruzioni processuali, nel dicembre tutto è pronto per un colpo di Stato. All'ultimo momento il tentativo è rinviato. Una decisione che provoca la reazione dei gruppi più oltranzisti. È la strage. Alle 16,30 del 12 dicembre 1969, alla Banca nazionale dell'agricoltura in piazza Fontana a Milano, una bomba ad alto potenziale provoca la morte di diciassette persone e il ferimento di ottantotto. Per la sinistra non ci sono dubbi sulla matrice della strage. «l'Unità» scrive: «Nel quadro di provocazioni fasciste e manovre reazionarie un orrendo attentato». Per i sindacati «l'attentato è ispirato dai nemici dei lavoratori». Dello stesso tono il giudizio dell'«Avanti!». Ingrao, allora presidente dei deputati comunisti, intervenendo alla Camera denuncia la campagna di destra, le torbide manovre internazionali e definisce le bombe di Milano: «una strage premeditata». È la prima di una lunga serie di stragi, seguiranno l'attentato ai treni a Gioia Tauro del 22 luglio '70, che provoca 6 morti e 50 feriti; il 31 maggio 1972 a Peteano (Gorizia), una carica di dinamite sistemata su di un'auto uccide 3 carabinieri e ne ferisce 2; il 17 maggio '73 le bombe alla Questura di Milano, muoiono 4 persone, 12 sono i feriti; il 28 maggio '74 a piazza della Loggia a Brescia la strage provoca 8 morti e 94 feriti; a soli due mesi di distanza, il 4 agosto, l'attentato al treno Italicus: 12 morti e 104 feriti. Tra il 1969 e i 1975, la destra eversiva compie 63 omicidi su di un totale di 92. A partire dalla seconda metà degli anni settanta si interrompe il ciclo delle stragi nere e il tragico primato della morte passa al terrorismo «rosso»; non si usano più le bombe, si uccide a raffiche di mitra, si compiono esecuzioni, agguati a sangue freddo, si spara nel mucchio. In una mimetica emulazione e intricate comunanze culturali, le sigle dell'eversione di destra muteranno la loro fisionomia e molti dei moduli operativi dei due «terrorismi» si identificheranno: dall'attentato individuale agli espropri, dai sequestri alla gestione politica dei processi. Nell'agosto '80, in un momento di massima espansione e virulenza dell'attacco del terrorismo «rosso», torneranno le bombe nere, lo squadrismo nero compirà la strage più feroce: il 2 agosto alla stazione centrale di Bologna dopo una violenta esplosione rimangono uccise 80 vittime innocenti, 200 feriti. Il bilancio dei morti per stragi è enorme, un tributo pagato dal paese alla lotta per la democrazia, un tributo a cui ancora oggi non è stato reso l'onore della verità. Scandalose sentenze, mezze verità, silenzi e coperture fanno da velo alla conoscenza reale dell'entità dei propositi e dei disegni, alla ricostruzione delle molte responsabilità, all'individuazione dei colpevoli. All'indomani di piazza Fontana la pista che si segue è quella rossa. Viene arrestato l'anarchico Pietro Valpreda. Il questore di Milano non ha esitazioni: secondo lui l'ordigno che ha provocato la strage è simile a quello usato per gli attentati del 25 aprile alla Fiera Campionaria, per i quali sono stati accusati militanti anarchici che risulteranno poi innocenti. Tutte le indagini sono opportunamente orientate. Serve un messaggio politico da lanciare al paese: i nemici delle istituzioni vengono da sinistra. Solo alla fine del '71 si seguirà la pista «nera», quando il lavoro ricostruttivo dei giudici Giancarlo Stiz e Gerardo D'Ambrosio produrrà una serie di prove decisive contro i neo-fascisti Freda e Ventura. Le scoperte di D'Ambrosio provocheranno un'inchiesta nell'inchiesta da parte dei sostituti procuratori Emilio Alessandrini e Rocco Fiasconaro. Sotto accusa per occultamento, sottrazione di reato, omissione di rapporto, tre alti funzionari dello Stato: Elvio Catenacci, vice capo della polizia e i dirigenti delle squadre politiche di Roma e Milano, Bonaventura Provenza e Antonino Allegra. Due giorni dopo l'orrendo attentato, in oscure circostanze, alla questura di Milano muore «suicida» Giuseppe Pinelli, definito dalla polizia «anarchico individualista», il suo interrogatorio non è stato verbalizzato. Nei partiti della sinistra si registrano segni di sbandamento. «l' Unità» definisce Valpreda «equivoca figura di ballerino». «Potere operaio» sembra ignorare la strage. Scriverà Guido Viale: «Potere operaio denuncia la matrice di Stato ma considera la battaglia antifascista un fronte arretrato di lotta». Ci vorrà qualche mese perché «II manifesto» affronti il caso Valpreda. Le prime manifestazioni in difesa dell'anarchico non vedono un'ampia partecipazione. La situazione cambierà nei mesi successivi. Spetta a Lotta continua il merito di condurre una vasta opera di controinformazione: è l'unico gruppo a reagire tempestivamente. Dopo piazza Fontana scatta la repressione contro i gruppi della «nuova sinistra». Vengono perquisite le loro sedi, compiuti numerosi arresti, con insistenza si fa il nome dell'editore Feltrinelli. Tra l'ottobre del 1969 e il gennaio 1970 i denunciati sono tredicimila, moltissimi gli studenti. Sindacati e padronato siglano il contratto dei metalmeccanici il 22 dicembre: quaranta ore settimanali, settantacinque lire di aumento l'ora, parificazione graduale con gli impiegati per la mutua, libertà di contrattazione integrativa, diritto d'assemblea in fabbrica. In primavera il Parlamento approverà lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Obiettivo strategico del sindacato diventano le riforme: il fìsco, la sanità, la casa, i trasporti. La controparte diventa dunque il governo. All'inizio del 1970 l'Unione dei comunisti è sconvolta dalla crisi: gli effimeri successi organizzativi si sono scontrati con la realtà delle lotte operaie. Sarà la rottura del gruppo. Potere operaio, su cui pesa l'isolamento sofferto davanti alle fabbriche, concentra la sua riflessione sull'organizzazione. Conquista dell'organizzazione e dittatura operaia è il titolo di una delle relazioni presentate al suo convegno nazionale del 9-11 gennaio. La polemica è con lo spontaneismo di Lotta continua: solo un rigido impianto centralistico può consentire «la distruzione della macchina dello Stato». Le parole d'ordine sono: «no alla tregua, no all'unità sindacale», «scontro sull'inflazione», rifiuto del lavoro e salario politico. Più dinamica si presenta Lotta continua che assume come campo di intervento un insieme di tematiche quali la marginalità sociale, il femminismo, la condizione carceraria, l'iniziativa nelle caserme dei «proletari in divisa». «Il manifesto» cerca di sfruttare la sua presunta autorevolezza per imporre la sua egemonia. Il risultato è magro, il suo eclettismo non paga. Solo nel settembre 1970 riesce ad esprimere una piattaforma politica. Il tratto caratteristico della fase è lo smarrimento. Una grande confusione si agita nel laboratorio di teorie e pratiche che hanno contrassegnato il biennio che va dal 1968 all'inverno 1970. Numerosi i «cani sciolti», — un'espressione coniata in quel periodo, — che entrano ed escono dalle formazioni alla ricerca di un gruppo che li convinca e li organizzi. Molti di loro saranno l'esercito di riserva delle manifestazioni di massa, i protagonisti delle «guerriglie urbane» apparentemente senza capi che riempiranno le cronache dei giornali. Dalla confusione originano i molti percorsi che attraverseranno la storia dei partiti dell'estremismo. Da un lato c'è il difficile approdo alla politica, diametralmente opposti i labirinti che portano alla lotta armata. La repressione dello Stato gioca la sua parte nell'alimentare il sovversivismo di sinistra. Complice lo squadrismo di destra e complici i miti della guerra civile, della guerriglia, dell'insurrezione. L'eversione di destra, con azioni provocatorie, acutizza le tensioni sociali nei punti caldi, davanti alle scuole e alle fabbriche, nelle borgate e nelle occupazioni delle case. Lo squadrismo fascista cambia pelle: il Msi cerca di utilizzare fino in fondo la reazione moderata cavalcando quella che viene definita «la maggioranza silenziosa» e al tempo stesso alimenta un sovversivismo di destra che muta radicalmente la sua vecchia fisionomia. Si forma a destra una cultura della rivoluzione e della violenza che vuole collegarsi all'antistatalismo e al radicalismo delle nuove generazioni. All'armamentario del nazifascismo, del mussolinismo, del richiamo alle forze armate e all'ordine si aggiungono le teorie di Julius Evola sulla «Dittatura legale», uno «Stato moderno» che espelle dal suo seno la partitocrazia e organizzato in modo gerarchico, secondo il trinomio fascista «autorità, ordine e giustizia». L'«antifascismo militante» diventa il terreno vischioso della risposta colpo su colpo, dello stillicidio delle vendette. Gli incidenti di piazza si ripetono secondo un copione prestabilito. Protagonisti: i gruppi, la destra e la polizia. Si vuole coinvolgere il sindacato e il Partito comunista. Il Movimento nei cortei si «autodifende» con il suo servizio d'ordine. Scatta la provocazione ed è difficile ricostruire in ogni circostanza chi è il primo ad intervenire. Fascisti contro gruppi, gruppi contro fascisti, intervento della polizia, scontro con la polizia: guerriglia di piazza. Possono ridursi i protagonisti o possono invertirsi nella sequenza i fattori. Il tutto comunque è al servizio della semplifìcatoria teoria degli opposti estremismi. Tra paura del golpe e repressione maturano le prime clandestinità: è di questi mesi la definitiva involuzione del Collettivo metropolitano milanese. Dalla violenza delle parole, per fasi successive, si passa alla terribile violenza delle armi.
«La strage di Stato, dal golpe Borghese all'incriminazione di Calabresi»,Samonà-Savelli, 1970, pp. 27-28.
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5. Paura del golpe e lotta armata
II Sessantotto ha trovato in Cuba, nella Cina della Rivoluzione culturale e nella lotta del popolo vietnamita i suoi principali riferimenti internazionali. Nel crinale degli anni settanta questi miti subiscono un offuscamento. La Rivoluzione culturale non esce dai confini nazionali e il suo valore emblematico non si coniuga con il proliferare dei focolai rivoluzionari. Suscita perplessità la posizione cinese sui fatti cecoslovacchi. La condanna dell'imperialismo dell'Unione Sovietica non si tramuta in reale leadership del movimento rivoluzionario e intanto giungono gli echi delle lotte interne al Partito comunista cinese. Sul piano diplomatico la Cina esce dall'isolamento e nel 1972, fra l'incredulità dei tanti adepti occidentali del «libretto rosso», dopo la visita di Nixon, riprende i rapporti con l'imperialismo americano. Cuba non prende posizione in merito all'invasione della Cecoslovacchia. La Tricontinentale di Fidel Castro continua la sua funzione di raccordo tra i movimenti di liberazione del Terzo Mondo e dell'America Latina ma Cuba guarda sempre di più alla sua stabilità interna. Mentre in vari paesi dell'America latina infuria selvaggia la repressione militare, la guerriglia si polverizza. Lo slogan guevarista «costruire uno, due, mille Vietnam!» è caduto nel vuoto. Il movimento degli studenti si era sentito parte integrante di un più generale sviluppo rivoluzionario. Ora, nel mutarsi delle condizioni internazionali, perde questo respiro strategico e ripiegato su se stesso, costretto a fronteggiare le resistenze dei singoli paesi, si rinchiude in forme difensive come l'autorganizzazione nei minipartiti dell'estremismo o vagheggiando l'azione militare come innesco di quella rivoluzione che il movimento di massa non ha prodotto. Il nuovo punto di riferimento diventa la guerriglia sudamericana. Il dibattito si concentra su come rispondere alla repressione dello Stato borghese con un'analoga violenza. L'America Latina è stata al centro di molte analisi. Nel luglio del 1967, un numero speciale delle riviste ha passato in rassegna le molte teorie rivoluzionarie che si confrontano in quel continente. Ma proprio nel 1967, con la morte del Che, la guerriglia ha subito una correzione. La strategia rurale prospettata da Guevara, dopo la sconfitta dei guerriglieri del Venezuela, del Perù e della Colombia, non è stata in grado di mobilitare le masse contadine. Il passaggio successivo è la guerriglia urbana. In occidente il laboratorio rivoluzionario non può che essere la grande metropoli, massimo luogo di concentrazione delle contraddizioni della società industriale. È facile dunque comprendere l'attenzione che suscita questo rovesciamento teorico-pratico. In America Latina i gruppi più attivi sono in Uruguay, Brasile e Argentina . I primi a conquistare notorietà sono i Tupamaros dell'Uruguay. In Brasile fra il '68 e il '70 operano varie formazioni di guerriglia urbana Aln (Acão libertadora nacional), la Vpr (Vanguardia popular revolucionaria) e i Var (Vanguardia armada revolucionaria)-Palmares. Nel 1970 nascono l'Erp, il principale gruppo di guerriglia urbana argentino, il Far (Fuerzas armadas revolucionarias) della sinistra peronista e i Montoneros. Quest'ultimo gruppo sale alla ribalta della cronaca con il sequestro e l'assassinio dell'ex presidente argentino Aramburu. La fama dei Tupamaros cresce nel 1970 con l'uccisione del consigliere americano Dan Mitrione. Successivamente lanceranno «l'attacco diretto e sistematico contro le forze repressive». Nei primi anni settanta i vari gruppi militari, anche in presenza di forti differenze arrivano alla fondazione di una giunta di coordinamento rivoluzionario. Fra i principali teorici del terrorismo sudamericano Abraham Guillen e Carlos Marighella. Le loro teorie e pratiche si ritroveranno nelle azioni delle formazioni terroristiche italiane, tedesche e francesi: in particolare l'essenzialità della propaganda armata e l'attenta scelta degli obiettivi militari. Guillen e Marighella teorizzano l'importanza dell'effetto stampa e la necessità di costruire attorno all'azione armata il massimo di clamore. Nello stesso periodo anche il terrorismo separatista europeo subisce una metamorfosi. In Irlanda il gruppo dei Provisional dell'Ira tende a uscire da uno stato organizzativo informale per creare una più efficiente struttura politico-militare. Un processo analogo si verifica nell'Eta basca. Il gruppo darà prova della sua forza nel 1973 con il sequestro del primo ministro spagnolo Carrero Bianco. Altro dato caratteristico è l'introduzione di motivi marxisti nell'eterogeneità culturale che contrassegna questi raggruppamenti, mentre un fenomeno che esprime il clima generale di quegli anni è l'attribuzione di una valenza rivoluzionaria a lotte nate da motivazioni esclusivamente separatiste, con forti accentuazioni nazionalistiche: il caso tipico è quello del canadese Front de libération de Quebec. In questo quadro la vicenda palestinese diventa un nuovo simbolo della rivoluzione: «al Fatah-Palestina rossa» sono gli slogan che scandiscono le manifestazioni di piazza degli anni settanta. Dirottamenti aerei e azioni terroristiche compiute in vari paesi richiamano l'attenzione del mondo intero sul dramma palestinese. La complessa vicenda dell'Olp fa molto discutere e molto influenza le vicende dei partiti armati. Con i gruppi più oltranzisti palestinesi non mancheranno contatti logistici. Militanti della Raf tedesca si addestreranno in Giordania e, a più riprese e in circostanze diverse, si parlerà di rapporti e «viaggi» di gruppi terroristi italiani in Libano. Nel crogiolo delle culture della lotta armata, più vicine alle esperienze italiane si presentano formazioni come la tedesca Raf (Rote armee fraktion) e la francese Gauche prolétarienne, da cui si distaccheranno i gruppi di Action directe. Si tratta di sviluppi organizzativi e di una scansione di azioni militari, tecniche e teorie che interagiscono tra loro nella comune prospettiva di estendere i confini della lotta armata. «Sinistra proletaria», il foglio del Collettivo metropolitano milanese, nel numero di settembre-ottobre 1980 afferma: «II capitale unifica il mondo nel suo progetto di controrivoluzione armata; il proletariato si unifica nella guerriglia a livello mondiale» intenzionale dunque l'autodefinirsi della Raf quale «frazione» dell'armata rossa, segmento del più generale processo della militarizzazione. Battesimo del fuoco per il gruppo capeggiato da Andreas Baader è l'attentato ai grandi magazzini di Berlino nell'aprile 1968. Il movimento studentesco tedesco si sta ripiegando su se stesso, represso dal sistema e logorato dalle sue stesse contraddizioni interne. Di lì a poco, l'attentato alla sede del gruppo editoriale Springer e l'attentato a Rudi Dutschke leader e teorico degli studenti tedeschi. È il punto di svolta del Movimento 2 giugno, formazione che ha preso il nome dal giorno della morte dello studente Bruno Olenesong ucciso dalla polizia nel corso di una manifestazione pacifista. Il gruppo si scinde: una parte si trasforma nella Raf, che verrà sprezzantemente definita la «banda» Baader-Meinhof. Rappresenta in Europa il primo esempio di formazione militare-terroristica . I suoi protagonisti sono i figli della media borghesia tedesca. Ulrike Meinhof, una delle personalità più interessanti del gruppo, trasforma la sua militanza social-democratica e pacifista nella militanza terrorista. In un suo scritto motiverà questa scelta come uno stato di necessità: «È la brutalità della società tedesca che ha reso necessaria la violenza della Rat». Baader è l'ideologo trascinatore, nel suo fanatismo, il mito militare sostituisce ogni fiducia sulla capacità propulsiva della classe operaia del movimento studentesco. L'azione terroristica serve come dimostrazione in sé, un esempio detonatore, una sfida contro la presunta inerzia rivoluzionaria. E lui che sul muro della comune di Francoforte, in cui vive nel '68, scrive «Gli intellettuali vanno mandati tutti in campo di concentramento» e rimarrà sempre fortemente influenzato dall'anti intellettualismo del gruppo berlinese «Frazione-giubbe di pelle». Dopo la liberazione di Baader la clandestinità. Per la Meinhof non ci sono dubbi: il problema della lotta armata non può che risolversi con l'esperienza e nella esperienza. Il gruppo è imbevuto di un terzomondismo fatto di militarismo e della totale negazione dell'intervento delle masse nel processo rivoluzionario. La loro parola d'ordine è «distruggere le isole del benessere in Europa», l'obiettivo costruire la guerriglia urbana. La sfiducia nelle masse è accompagnata dalla funzione emblematica assegnata all'atto terroristico. La Germania risponde con le leggi speciali, e con un'aspra campagna di stampa. La «Bild zeitung» pubblica consigli pratici per aiutare la polizia nella caccia al terrorista e sulla copertina di «Stern», sotto le loro foto, campeggia il titolo «chi sarà il prossimo a morire?». Servendosi dell'escalation terroristica, in Germania si apre un processo di revisione costituzionale e di sostanziale irrigidimento. Attraverso l'ossessiva caccia al terrorista, passano i provvedimenti restrittivi per gli appartenenti alla sinistra, vengono giustificate le limitazioni della libertà di stampa, i supercarceri e l'annientamento psichico dei carcerati. Non si tratta solo della lotta contro il terrorista ma in generale di una lotta contro il «diverso» come affermazione di una democrazia superprotetta, risposta reazionaria alla crisi del Welfare state. Il modello tedesco influenza il moderatismo e la conservazione italiana ma il disegno autoritario non passerà, anzi nell'Italia delle trame e della strategia della tensione emerge con prepotenza la «questione comunista». Tuttavia la paura del golpe e il rischio della germanizzazione sono angosce collettive dei movimenti estremisti. La crisi dei gruppi dopo le lotte dell'autunno caldo, congiuntamente ai torbidi scenari che circondano la strage di Stato, accentua le suggestioni militariste. Nessuna delle formazioni minoritarie ne resta immune. In un documento del gruppo di studio Ibm, confluito poi nel Collettivo metropolitano milanese si legge:, «L alternativa è chiara: o i gruppi [...] superano questa fase profondamente imbevuta di spontaneismi, volontarismo, settarismo e priva quindi di una seria prospettiva di classe contrapponibile alle organizzazioni che rifiutano assumendo il punto di vista generale dello scontro tra borghesia e proletariato, oppure sono destinati ad essere spazzati via inesorabilmente dalla scena politica» . È un chiaro invito a scegliere la lotta armata. «Lotta continua» pubblica ampi resoconti e commenti sulle guerriglie internazionali. La frenetica riorganizzazione di Potere Operaio si muove per una più funzionale strategia di «distruzione dello Stato». Il tema della guerra civile torna spesso negli articoli e nelle discussioni de «II manifesto». In Italia, alla fine del 1970, il foglio del Collettivo metropolitano assume la guerriglia non più come un possibile emblematico detonatore ma come una linea generalizzabile. Nel suo ultimo numero del gennaio 1971 lancia la parola d'ordine «organizziamo la nuova resistenza». È in perfetta sintonia con quanto nel maggio 1970 avevano scritto i «Cahiers de la Gauche proletarienne»: «La nostra politica ha un nome nuova resistenza: la lotta violenta popolare [...] l'ora della guerriglia è suonata». «Sinistra proletaria», polemizzando col collettivo romano Palestina rossa, afferma l'esigenza di stabilire non generiche solidarietà ma rapporti concreti fra la lotta rivoluzionaria del nostro paese e le lotte e le guerre di popolo. Per la prima volta un documento della Raf, Guerriglia urbana, è pubblicato da «Nuova resistenza», l'organo che sostituisce «Sinistra proletaria». Sullo stesso numero appaiono i documenti di varie formazioni della guerriglia: un'intervista a un tupamaro, materiali dall'Uruguay e dalla Palestina, i testi delle «trasmissioni al popolo» dei Gap. Nei primi mesi del 1971, il passaggio alla clandestinità e alla lotta armata: compaiono le prime azioni firmate Br. Sul ruolo della Raf nella formazione dei primi gruppi terroristici europei si dilungherà Renato Curcio in una lettera spedita dal carcere di Monserrato in occasione della morte di Holger Meins. Al gruppo di Baader riconosce la funzione di vera «rottura storica» avendo per primo affrontato la questione della lotta armata in una «società tecnologica metropolitana». Nella tortuosità del ragionamento, assume questo dato come «vittoria in sé», da cui fa discendere la «necessità» da parte dello Stato di «annientare la Rat nuovo obiettivo ossessivo e confessato della controrivoluzione tedesca» . Nella stessa lettera non sono taciute le diversità rispetto alla situazione italiana e, considerazione che serve per comprendere le linee dell'azione terroristica del nostro paese, viene registrato come limite di fondo della Raf «rimpianto del rapporto politico-militare con lo Stato da un lato e del rapporto politico organizzativo con il movimento operaio e rivoluzionario tedesco dall'altro». Le peculiarità del terrorismo italiano, infatti, saranno la costante mimetizzazione ai fianchi del movimentismo postsessantottesco, e il tentativo di dialettizzarsi con le tensioni sociali allo scopo di mantenere in vita policentrici canali di reclutamento. Originate da background culturali, sociali e politici diversi, le due formazioni terroristiche hanno in comune i tragici rituali: l'ossessione dell'efficienza militare, il valore di simbolo assegnato all'atto terroristico, l'uso della condizione carceraria, l'uso del processo come arma politica. Comune la tipologia dell'azione terroristica: il processo-sequestro, l'esproprio-rapina, la scelta degli obiettivi e le tecniche operative. Gli anni che vanno dal 1970 all'inverno 1972 vedono il proliferare delle battaglie di piazza. Si può dire che non c'è manifestazione promossa dai gruppi e dai resti del movimento che non si concluda con la guerriglia urbana. Al Sud esplodono le rivolte: a Caserta in seguito a un avvenimento sportivo, a Reggio Calabria la destra si impadronisce della città facendo leva su antichi e mai completamente scomparsi antistatualismi e sulla miseria delle popolazioni meridionali. Nelle rivolte delle carceri e del sottoproletariato urbano nuove marginalità si fanno soggetto politico. In questo clima si accentua lo scivolamento verso l'organizzazione della lotta armata. Sarà una svolta decisiva per la storia dell'estremismo, ne determinerà un'irreversibile crisi.
Cfr. W. Laqueur, «Storia del terrorismo», Rizzoli, 1978.
Cfr., «Raf, formare l'armata rossa- I «tupamaros d'Europa...?», prefazione L. Della Mea, Bertani editore, 1972.
Gruppo di studio IBM, «IBM capitale imperialistico e proletariato moderno», Sapere, 1973.
Lettera dal carcere di Casale, pubblicata su «ABC», n. 9, marzo 1975 e su «Rosso», n. 15, marzo-aprile 1975.
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6. La rivolta di Reggio
II 1970 è un anno diffìcile per il Pci e per l'insieme del movimento operaio e democratico: si è aperto con la strage di piazza Fontana a cui è seguita l'ondata repressiva e il pullulare dello squadrismo fascista. Il sindacato, concluse le lotte sui contratti, sceglie il terreno sociale delle riforme ma il processo unitario procede con lentezza e il confronto con il governo è reso difficile dalla precarietà del quadro politico. Accrescono le difficoltà i risultati delle elezioni regionali. Arretrano il Pci e il Psiup, mentre aumenta l'astensionismo, specie nelle zone operaie e urbane. Arnaldo Forlani, allora segretario della Dc, ha condotto la campagna elettorale all'insegna dell'omonimo preambolo, non solo per la volontà di chiudere ai comunisti ma per costringere il Psi a scegliere e caratterizzare in senso moderato la formula di centrosinistra. Il rifiuto socialista di praticare il preambolo Forlani congiuntamente alle tensioni economiche porta alla caduta del governo Rumor. Si manifestano in varia misura segni di scollamento fra lotte sociali e Partito comunista. Nelle fabbriche numerosi episodi testimoniano il crescere della tensione nel rapporto tra lavoratori e sindacato. Lo spostamento sul terreno delle riforme ha dato dimensione politica generale all'iniziativa sindacale ma ha scoperto il fronte aziendale. All'Alfa già nella primavera erano riprese le vertenze sui ritmi e sulle condizioni interne. I sindacati riassorbono le spinte in una vertenza aziendale, ma la piattaforma è incerta e le trattative sono defaticanti. Lotta continua, all'insegna dello slogan «poche ore di sciopero non risolvono nulla», cerca di scavalcare il programma di sciopero dei sindacati. Nel mese di giugno alla Mirafìori si susseguono scioperi autonomi. All'inizio «l'Unità» non dà risalto alla notizia: «In alcune officine della Mirafiori gli operai hanno prolungato l'orario di sciopero sindacale». All'indomani diecimila lavoratori promuovono un imponente corteo interno. Così lo descrive «Lotta continua»: «I capi, i delegati crumiri, i guardiani, gli impiegati fuggono e si rintanano ma ogni tanto un operaio ne becca due nascosti in refettorio e li presenta ai compagni tenendoli per il bavero». Per il 7 luglio 1970 il sindacato proclama lo sciopero generale di ventiquattro ore per le riforme. Contro lo sciopero — che per il padronato è il più insensato e colpevole del dopoguerra — si dimette il governo Rumor. Per la Cgil è «una grave provocazione politica». Tutti i sindacati sono concordi: il rischio è una svolta a destra. Lo sciopero è revocato. La dichiarazione della direzione politica del Pci dell'8 luglio '70 sottolinea la peculiarità e l'ampiezza dell'offensiva reazionaria dopo l'autunno: «Sono state tentate strade diverse per spingere ad una situazione grave della vita economica nazionale ben sapendo che un'abbassamento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici, e con l'acutizzarsi di certe contraddizioni all'interno delle classi lavoratrici, e fra Nord e Sud, si sarebbero aperte le possibilità più reali per la reazione». A Rumor succede Colombo; la prima scelta del nuovo governo è un attacco sul fronte economico-sociale: il 27 agosto vara misure anticongiunturali che colpiscono indiscriminatamente i consumi popolari senza dare avvio a nessuna politica strutturale di riforma. I gruppi parlamentari del Manifesto e del Psiup scelgono la via dell'ostruzionismo. Al contrario, l'«opposizione costruttiva» del Pci propone un complesso di emendamenti che hanno lo scopo di affermare scelte qualitativamente diverse, assicurare la piena occupazione e superare gli squilibri e le lacerazioni del tessuto sociale. Dall estremismo viene un coro di critiche. Lotta continua, Potere operaio, i gruppi marxisti-leninisti. Avanguardia operaia. Manifesto, Movimento studentesco, tutti sono concordi: si tratta di un ulteriore patteggiamento fra revisionismo e borghesia, il Pci per legittimarsi come forza di governo contratta la tregua sociale, lancia un ponte al grande padronato, strizza l'occhio alla Dc. In luglio, esplode la rivolta di Reggio Calabria . La proposta di Catanzaro come sede dell'assemblea regionale infiamma la protesta campanilistica, pretesto per una più generale ribellione,. espressione inquietante del groviglio di problemi vecchi e nuovi che si addensano nella realtà meridionale. Per i partiti dell'estremismo le barricate dei quartieri popolari di Reggio sono un brusco richiamo alla realtà meridionale. La ribellione popolare trova nelle destre locali il suo principale motore: la sovversione, la rivolta contro lo Stato è una carta che va giocata fino in fondo, se le forze della rivoluzione non sanno utilizzarla altri se ne avvantaggiano. Per le rivolte non c'è colore: destra e sinistra sono vecchie categorie di comodo, quando ci si batte contro lo Stato e si viene repressi si sta tutti dalla stessa parte. Anche la sinistra tradizionale si interroga: rivoluzione o reazione. Le risposte saranno contraddittorie. E la prima volta che le organizzazioni del movimento operaio non hanno assunto l'iniziativa di fronte a un grande moto di massa e anzi sono costrette alla difensiva. Non sono in pochi nel Psiup e nella sinistra cattolica a fare paragoni e parallelismi con quello che accade in altre nazioni in cui si sono imposti sommovimenti e lotte alimentate da ragioni locali, autonomismi e minoranze. La domanda di fondo rimarrà: la rivolta di Reggio poteva essere gestita e incanalata su obiettivi giusti dai partiti operai e dai sindacati? La «rivolta», inizia il 5 luglio, lo stesso giorno in cui è convocato il consiglio regionale a Catanzaro, col rapporto alla città del sindaco democristiano Piero Battaglia; finirà nel febbraio del '71 con la decisione dell'assetto istituzionale in Calabria e l'intervento militare nei quartieri popolari di Santa Caterina e Sbarre. A metà settembre, intervenendo alla commissione Interni della Camera il ministro degli Interni, Restivo, fa un primo bilancio del periodo compreso tra il 5 luglio e il 15 settembre: 19 giorni di sciopero generale, 32 blocchi stradali, 14 ferroviari, 2 portuali, 1 aereoportuale, 1 radiotelevisivo, 23 scontri con la polizia, 6 assalti alla prefettura, 4 alla Questura, 283 persone fermate, 426 denunciate in stato di arresto o a piede libero, 191 feriti fra la polizia, 37 fra i civili, 3 morti dei quali 2 civili e un militare. Si è ancora all'inizio di quelli che saranno i cento giorni di Reggio, sarà un crescendo di violenza, di tentate stragi. Ben presto le azioni di protesta sfuggono al controllo del Comitato d'iniziativa a cui partecipano notabili Dc, dirigenti della Cisl e autorità ecclesiastiche, fallito ogni tentativo di ricondurre le azioni alla pacificazione avrà buon gioco il «Boia chi molla» di Ciccio Franco e delle sue squadre. I gruppi organizzati della destra cercano con ogni mezzo di egemonizzare la rabbia popolare, una presenza inquinante e decisiva che tuttavia sarebbe erroneo considerare l'unico motore della rivolta; essi si avvantaggiano del clima di protesta, di una consumata sfiducia nelle istituzioni, sfruttano le debolezze dello stato e il suo scollamento dalla realtà meridionale. Già nel corso del '69 in Calabria sono particolarmente attivi i gruppi del Fronte nazionale di Valerio Borghese, di Avanguardia nazionale e di Ordine nuovo; a Nicotera, sulla Sila, a San Lorenzo in Marina, i loro campi di addestramento alla guerriglia e alla controguerriglia. A Reggio Calabria, sul finire dell'anno, si segnalano alcuni attentati: cariche di tritolo alla Sip, al Catasto, alla chiesa di San Brunello, alla Standa, alla chiesa di San Lorenzo in Marina, il più grave alla Questura, è il 7 dicembre cinque giorni prima delle bombe di piazza Fontana, A metà luglio '70 i primi blocchi stradali, selvagge cariche della polizia. La Cgil lascia liberi i suoi aderenti di partecipare alle manifestazioni, il comitato cittadino del Psi, in polemica con la federazione provinciale, aderisce alla lotta. Il 15 luglio barricate nella città, dimostranti guidati dal consigliere provinciale della Dc, Arillotta, assaltano le sedi del Pci e del Psi. L'appello alla calma lanciato dal sindaco Battaglia non è raccolto, proseguono ininterrottamente gli scontri, in serata dopo una carica della polizia la morte del ferroviere Bruno Labate iscritto allo Sfi-Cgil. È la paralisi totale della città. Ai suoi funerali i gruppi squadristici di destra fanno la loro prima comparsa organizzata: oltre 200 persone lanciano molotov contro la Questura e cercano di coinvolgere nella battaglia i manifestanti. La direzione della rivolta passa dal sindaco Battaglia, considerato moderato, al Comitato di agitazione, lo compongono avventurieri locali, esponenti degli agrari, notabili della De e il missino Aloi che ha nel quartiere di Santa Caterina la sua roccaforte. Un parziale ritorno alla calma si ha dopo il 22 luglio in seguito alla decisione di sospendere il consiglio regionale già convocato a Catanzaro. Proprio lo stesso giorno a Gioia Tauro viene fatto deragliare il Treno del Sole: 6 morti e 50 feriti. Fallisce in attentato al tratto ferrovario tra Villa e Cannitello. Il Pci, con un comunicato della direzione, prende posizione sul carattere eversivo dei moti di Reggio e contro l'atteggiamento dei partiti di centro-sinistra. Anche il Comitato di agitazione viene liquidato, l'ala più oltranzista confluisce nel Comitato d'azione di marca fascista ed eversivo presieduto dall'ex segretario della Cisnal, Ciccio Franco, ne fa parte anche l'industriale del caffè Demetrio Mauro. Ad una adunata di oltre diecimila persone Ciccio Franco afferma «la battaglia per Reggio capoluogo inizia da oggi» e lancia lo slogan «Boia chi molla!». Di lì a poco non esiterà a prospettare la volontà di esportare i moti in tutta la regione, un tentativo sarà sventato a Villa San Giovanni dove la polizia deve interrompere tutte le comunicazioni con la Sicilia. Al Comitato d'azione si contrappone su una linea più moderata il Comitato unitario a cui partecipano esponenti della Dc e del Psi, ma ancora si è ad una gestione che ha molti tratti in comune. La rottura ci sarà solo dopo le manifestazioni della metà di settembre. Al loro divieto da parte delle autorità di polizia, Ciccio Franco risponde con la minaccia di costruire le «Brigate» per Reggio libera; fanno la loro comparsa le armi da fuoco. Lo sciopero del 14 settembre è l'occasione di nuove provocazioni, assalti alle sedi dei partiti democratici e violenze, mentre la città è un infittirsi di barricate, proseguono gli scontri con la polizia: sassaiole, blocchi alla stazione, lancio di molotov, nei quartieri si spara, un incendio di grandi proporzioni culmina con la morte dell'operaio Angelo Campanella. Il 23 settembre ancora bombe sui binari della stazione di Taureana a pochi chilometri da Gioia Tauro; un ordigno esplosivo scoppia alla stazione di Santa Caterina. Mentre il sindacato unitariamente lancia la piattaforma per la rinascita regionale e le forze politiche tentano di trovare una soluzione alla vicenda del capoluogo, nel susseguirsi di riunioni, di rapporti-vertice col governo centrale, nel contrapporsi delle varie proposte-pacchetto per la Calabria, mentre i tradizionali notabili del Meridione cercano di riprendere ognuno per proprio conto fette della perduta egemonia, a Reggio proseguono i tumulti diretti dalle squadre di Ciccio Franco. I quartieri di: Sbarre, Santa Caterina, Ferrovieri, piazza Italia sono circondati dalle barricate che vengono innalzate subito dopo ogni rimozione delle forze dell'ordine. Il 9 ottobre un nuovo attentato: saltano 40 metri di rotaia a Eronova, una stazione fra Gioia Tauro e Rosarno. Un agente è ferito da colpi di pistola nel corso della battaglia che si sviluppa su uno dei ponti che collega Sbarre al centro della città. Ad attentato segue attentato. All'inizio del '71, l'intervento dell'esercito: reparti di alpini, bersaglieri, paracadutisti circondano Reggio, si calcola che siano più di diecimila fra militari e forze dell'ordine. Il 28 gennaio la dura dichiarazione di Enrico Berlinguer vicesegretario del Pci: «È giunto il momento di stroncare le provocazioni fasciste!». Due giorni dopo il tentativo di assalto alla federazione del Pci di Reggio. I sindacati si impegnano in mezzo a molte difficoltà a far riprendere il traffico ferroviario. Ciccio Franco, insieme ad altri esponenti del Comitato d'azione, è colpito da mandato di cattura, inizia la sua latitanza, lo ritroveremo eletto nelle liste del Msi sui banchi di Palazzo Madama. Il 3 febbraio una carica di esplosivo al Palazzo della Provincia di Catanzaro, il giorno dopo la strage: cinque bombe a mano sono lanciate contro la manifestazione antifascista che si svolge a Piazza Grimaldi, nell'esplosione muore il muratore socialista Giuseppe Malacaria, rimangono ferite 11 persone. Nonostante il lutto cittadino non cessano le violenze. Arrivano a Reggio la divisione Aqui e 30 mezzi cingolati M 13 dei carabinieri che si attestano a Santa Caterina. Qualche giorno dopo un carro armato tipo Sherman, in dotazione ai carabinieri, entra nel quartiere di Sbarre: il blocco del rione è durato oltre 20 giorni. A Reggio Calabria il 4 aprile dopo l'approvazione dello statuto si ha la proclamazione ufficiale del consiglio regionale. Ha vinto lo Stato, ma la democrazia è stata profondamente colpita. A Reggio sono esplose tutte le contraddizioni di un meridionalismo assistenziale e notabilare, i fascisti si sono serviti della rabbia e della disperazione per una prova di forza. La sinistra storica ha pagato un alto prezzo politico alla sua incapacità a fronteggiare il dramma storico del Meridione e a comprenderne le novità, dovrà trame tutte le sue implicazioni. I fatti di Reggio Calabria e poi quelli dell'Aquila del marzo 1971, impegnano il partito comunista in una severa riflessione autocritica. Scrive su «Rinascita» Alfredo Reichlin: «Sono fatti molto gravi che impongono una seria riflessione poiché essi mettono in luce limiti e difetti molto profondi del partito e del movimento popolare, la debolezza dei legami con le masse povere e di piccola gente, e soprattutto con la gioventù delle città meridionali, i pericoli che minacciano la democrazia nel Mezzogiorno, il rischio quindi che le Regioni nascano morte». E prosegue: «II colpo subito a Reggio non deve nascondere il fatto che in Calabria e nel Mezzogiorno siamo in presenza di una situazione nuova che il livello nello scontro (che certo lì non abbiamo saputo fronteggiare come si doveva) è molto avanzato, molto politico. Altro che spontaneità. A Reggio — noi riteniamo — è solo una battaglia che fa parte di una guerra più vasta. In altre parole, nelle vicende di Reggio si esprime contraddittoriamente, sia tutto il passato (una situazione di retroterra non solo sociale ma anche ideale e culturale, e il limite grave di un partito che non riesce a rinnovarsi e perciò riflette in parte tutto ciò sul suo volto) sia tutta la crisi del vecchio blocco di potere» . Dai fatti di Reggio, da quelli dell'Aquila nasce la necessità di un nuovo impegno del partito comunista: non uno «Stato maggiore politico» ma un'organizzazione di massa capace di una propria azione di agitazione, di promozione di lotta . Con questo spirito, con questa volontà si risponde alle innumerevoli provocazioni: alla rivolta dell' Aquila dei primi di marzo, alla manifestazione promossa a Roma dai sedicenti «amici delle forze armate». Fra scalpore, incredulità e minimizzazione, il 20 marzo '71 il giornale romano «Paese sera» diffonde la notizia dell'incriminazione di Valerio Borghese accusato di aver ideato un golpe mancato. Il tentativo dell'ex comandante della X Mas, fondatore il 13 settembre del '68 — davanti ad un notaio di Roma — del Fronte nazionale rivoluzionario, risale alla notte tra il 7 e 1'8 dicembre 1970. Erano pronti gruppi d'assalto dentro lo stesso Viminale, era stato predisposto un blocco alle centrali elettriche e telefoniche, mentre un corpo di forestali — attestato sulle montagne del reatino — doveva consentire l'occupazione della Rai. Il piano non era un mistero nei salotti dell'alta borghesia romana e proprio in quegli ambienti Borghese cercava e trovava i finanziamenti alla sua organizzazione e potenti coperture. Nella sua villa vengono sequestrati elenchi di nomi compromessi, nel fallito colpo di Stato figurano alti ufficiali dell'esercito e due ammiragli.
Nel paese un vasto arco di forze democratiche dà vita ad imponenti manifestazioni antifasciste, l'appuntamento nazionale a Roma, coi comuni di tutta Italia coi loro gonfaloni, vede la partecipazione di oltre trecentomila persone; ovunque si estendono i Comitati unitari antifascisti, la risposta democratica contro la strategia della tensione è la costruzione di un vasto movimento unitario e di massa.
Per la cronologia Cfr. F. D'Agostino, «Reggio Calabria, i moti del luglio 1970-febbraio 1971», Feltrinelli, 1972.
A. Reichlin, I fatti di Reggio Calabria, «Rinascita», n. 33, 21 luglio 1970.
E. Berlinguer, intervento al convegno dei quadri meridionali del Pci, l'Aquila, 3-4 ottobre 1972; ora in E. Berlinguer, «La “questione comunista”», a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, 1975, vol. 1, p. 499.
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7. Il Traliccio di Segrate
In agosto Potere operaio sperimenta a Porto Marghera le forme di lotta della rivolta di Reggio: blocchi stradali, bottiglie incendiarie, barricate, cerca di coinvolgere i quartieri intorno al Petrolchimico. Nella sua seconda conferenza d'organizzazione a Bologna in settembre, lancia un ponte verso il Manifesto avviando la costruzione dei Comitati politici, ma non rinuncia a perseguire la linea della militarizzazione dello scontro. Intanto attorno alle questioni economiche riprende l'offensiva dei gruppi: mobilitazioni e incidenti a Roma, Firenze, Bologna. «L'autunno rosso è già cominciato»: con questo titolo «Sinistra proletaria» annuncia la costituzione delle Brigate rosse. Negli argomenti e nelle parole d'ordine del'giornale echeggiano motivi ampiamente ripresi dalla Gauche proletarienne e non c'è dubbio che la decisione del governo francese di dichiarare fuori legge quel gruppo ha un notevole effetto nelle scelte dell ex Collettivo metropolitano milanese. La rivolta di Reggio Calabria entra a pieno titolo nel dibattito dei gruppi. Scrive Guido Viale: «Che la battaglia di corso Traiano possa ripetersi nelle città del settentrione, come le rivolte nere degli Stati Uniti si riproducono da Harlem a Watts, a Detroit, a Washington, è sicuramente un errore di previsione. Ma ha permesso di capire le rivolte di Battipaglia, Caserta, di Reggio, dell'Aquila» . Su «Lotta continua» e su «Potere operaio» numerosi i resoconti e le esaltazioni: «Reggio Proletaria, Reggio Rossa»; è «il punto più alto della rivoluzione proletaria nel Sud». Attorno alla parola d'ordine «prendiamoci la città», lo slogan della conferenza indetta a Bologna, Lotta continua riorganizza la sua presenza sociale. Il tema della violenza echeggia nelle tesi del «Manifesto» pubblicate in settembre: «questa crisi è necessariamente violenta, anche se non può assumere la forma della guerra civile, per la forza stessa del movimento». Facendo il bilancio di un anno di «antifascismo militante», «Lotta continua» usa termini come «giustizia proletaria» per commentare l'omicidio dell'esponente missino Venturini e «gogna proletaria» a proposito dei sequestri dell'avvocato Mitolo e del sindacalista Piccolo da parte di un corteo di operai. Tra dicembre e giugno numerosi gli episodi di violenza in varie città, è un microterrorismo che ha come principale obiettivo i fascisti. Si estende l'organizzazione delle Br: ad aprile esce «Nuova resistenza»: pubblica documenti dei Gap e informazioni sulla guerriglia nel mondo; alla Siet Siemens e alla Pirelli, in settembre, le prime azioni. Guerra civile e lotta armata sono i temi che rimbalzano da gruppo a gruppo. Alle teorie fa da verifica la crescente asprezza delle manifestazioni. Ormai l'obiettivo principale è lo scontro duro: provocare un'irreversibile crisi del sistema, smascherando così la falsa democrazia dietro cui si celano i disegni reazionari e conservatori. In questo terreno di coltura del sovversivismo sociale si colloca la prima riflessione teorica delle Brigate rosse. Nel documento-intervista, del settembre 1971, i brigatisti esplicitano il loro progetto di partito armato e la loro posizione nei confronti dei gruppi extraparlamentari: «Non ci interessa sviluppare una polemica ideologica. Il nostro atteggiamento nei loro confronti è innanzitutto determinato dalla posizione sulla lotta armata. In realtà nonostante le definizioni rivoluzionarie che questi gruppi si attribuiscono al loro interno prospera una forte corrente neofascista con la quale non abbiamo niente a che spartire che riteniamo si costituirà al momento opportuno in una forte opposizione all'organizzazione armata del proletariato. Meno sicuramente un'altra parte dei militanti accetterà questa prospettiva. Con essi il discorso è aperto» . La crisi politica trova il suo apice nel dicembre '71 in occasione del voto per il presidente della Repubblica. Fanfani non riesce nel suo obiettivo. In una equivoca convergenza fra schieramento moderato e Msi si arriva all'elezione di Giovanni Leone. Secondo il politologo Giorgio Galli è in questo periodo che si delinca un aspro conflitto fra le forze di quello che egli definisce il «governo invisibile». Nel suo La crisi italiana e la destra internazionale scrive infatti: «Da una parte la maggioranza ritiene di aver avviato la stabilizzazione; è pronta a favorire il recupero di una posizione centrale da parte della Dc, pur consolidando le posizione del Msi vanno invece liquidati i gruppi estremisti del terrorismo di destra. La parte minoritaria del governo invisibile ritiene invece che la situazione sia sempre difficile, che la Dc non offra sufficienti garanzie che bisogna puntare in misura maggiore sul Msi senza liquidare il terrorismo di destra» . Ipotesi credibile se confrontata al groviglio di situazioni che si addensano nel periodo primavera inverno '72 e si prolungheranno negli anni successivi. La liquidazione dell'eversione nera, ritenuta ormai un ostacolo, provoca duri contraccolpi; al tempo stesso molti episodi dai torbidi contorni tendono a rilanciare l'allarme sociale sui rischi del pericolo «rosso». Lo scontro si riflette nella lotta ai vertici del Sid, una lunga crisi di transizione che troverà la sua massima tensione nella seconda metà del 1974 con la consegna da parte del generale Maletti del dossier sui retroscena del golpe Borghese e sul terrorismo di destra. Tassello decisivo di questa battaglia fra poteri occulti variamente collocati nel sistema di potere: l'avvento nel giugno '71 a capo dell'ufficio «D» del Sid del generale Maletti. Giuseppe de Lutiis in Storia dei Servizi segreti in Italia collega direttamente la nomina, peraltro contestuale al richiamo da Rangoon dell'ambasciatore Edgardo Sogno, alla preparazione di una soluzione d'ordine diversa dal colpo di stato militare: «L'alternativa è un golpe incruento che dovrà avere caratteristiche di riforma istituzionale e venature di "sinistra". Sarà appoggiato dalla parte più moderna del mondo industriale e tenderà ad inserire l'Italia — priva del "pericolo" comunista — in un contesto europeo più efficiente, tecnocratico e possibilmente in posizione di maggior autonomia rispetto agli Stati Uniti» . Si tratta del progetto di «golpe bianco» che ha come aperti sostenitori personaggi come Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, nome ricorrente nella storia di oscure provocazioni alla Fiat, nonché settori di diverse aree politiche e sul piano economico si avvale dell'appoggio della stessa Fiat. È evidente che per portare a compimento questo disegno occorre liberare la scena dai protagonisti del golpismo più rozzo. Le inchieste sul terrorismo subiscono rallentamenti e attivazioni funzionali a questo obiettivo. Il processo Valpreda subisce un ulteriore rinvio; al contrario si accelera l'inchiesta, prima frenata sul gruppo Freda e Ventura, inchiesta che arriverà fino all'arresto di Pino Rauti. Inizia in questo contesto la battaglia per la liquidazione del generale Miceli capo del Sid nonché le contro tendenze che questo riassestamento della linea eversiva mette in moto. Gli eventi del marzo '72, il sequestro Macchiarmi, la battaglia dell'11 marzo a Milano, la morte di Feltrinelli, e l'uccisione del commissario Calabresi, sia pure nella loro diversità e nelle singole meccaniche, serviranno alle forze più oltranziste del cosiddetto governo invisibile a riproporre la psicosi della guerriglia urbana e del terrorismo promosso dalla sinistra. Nella prima metà del 1972, la lotta armata è ormai una tragica realtà. Il 3 marzo il primo sequestro politico, Macchiarini. Nel «carcere» delle Brigate rosse il dirigente della Sit-Siemens è sottoposto a «processo politico». Sul cartello appeso al collo la frase: «Macchiarini Idalgo dirigente della Siemens, processato dalle Br. I proletari hanno preso le armi, per i padroni è l'inizio della fine». Nonostante il divieto della Questura, a Milano, città-laboratorio dell'eversione, l'11 marzo si svolge la manifestazione indetta dal Comitato di lotta sulla strage di Stato. La reazione della polizia provoca la morte di un pensionato. Gli scontri sono durissimi, in prima fila il servizio d'ordine di Potere operaio. Il Manifesto impegnato nella preparazione della sua campagna elettorale è uscito dal Comitato di lotta. Fra i gruppi la polemica è accesa. «Potere operaio» afferma: «il diritto di stare in piazza lo si conquista con la forza della propria organizzazione, non lo si può ottenere attraverso il legalitarismo e le trattative con la Questura». E ancora: «L'autodifesa militante del movimento rivoluzionario ha saputo sostenere il carattere politicamente offensivo della manifestazione: con i sassi, con le bottiglie, con le fionde, con le barricate i compagni hanno respinto per ore, strada per strada, gli attacchi della polizia ancora una volta assassina» . Dello stesso tenore è il giudizio di «Lotta continua» . Per «Avanguardia operaia» la repressione contro le forze rivoluzionarie non ha più «il significato di un diversivo intorno alla questione della strage di Stato, ma è parte integrante del suo disegno più ampio di realizzazione di uno Stato forte» . Tuttavia anche Avanguardia operaia, consapevole dei rischi di avventurismo, uscirà di lì a poco dal Comitato di lotta contro la strage di Stato. Sono passati quattro giorni dai fatti di Milano quando, il 15 marzo, a Segrate nei pressi del capoluogo lombardo è rinvenuto il cadavere di Giangiacomo Feltrinelli. «Potere operaio» non ha esitazioni: Feltrinelli apparteneva ai Gap. Il gruppo è nel cerchio delle indagini, circola la voce di una sua messa fuori legge. «Giù le mani da Potere operaio» proclama minacciosa «Lotta continua». «Avanguardia operaia», prende le distanze e definisce avventuristiche le posizioni di «Lotta continua» e di «Potere operaio». Ancora a Milano, il 17 marzo, è ucciso il commissario Luigi Calabresi. Il suo nome è legato alle indagini sulle bombe di piazza Fontana e alla morte dell'anarchico Pinelli. In quegli stessi giorni si svolge il XIII congresso del Pci. La parola d'ordine «per un governo di svolta democratica», lanciata per l'imminente campagna elettorale, vuole offrire un organico sbocco politico alla battaglia per le riforme di struttura superando il loro settorialismo, la pura somma di rivendicazioni, per porre come questione centrale la dirczione politica del paese, «un diverso modo di governare», di fronte alla crisi lacerante in cui si dibatte ormai il centrosinistra: «II problema del rapporto con il Partito comunista», afferma Enrico Berlinguer, che alla chiusura del congresso sarà eletto segretario del partito, «è diventato sempre più pressante fino a presentarsi, come avviene ora, il problema centrale della vita del nostro paese e la condizione prima per farlo uscire dalla grave crisi che attraversa. E possibile uscire dalla crisi del paese solo con un rapporto nuovo con i comunisti». Denunciata la Dc e il suo sistema di potere, la relazione di Berlinguer si sofferma ampiamente sui caratteri della crisi: «Essa investe non solo l'economia ma l'insieme delle relazioni sociali, la morale, la cultura, le grandi questioni ideali. Essa è conseguenza delle trasformazioni sociali intervenute nel paese; la tumultuosa espansione dell'ultimo decennio, le diverse e contraddittorie sollecitazioni che si sono manifestate nello sviluppo dei vari momenti di emancipazione, l'emergere in forma sempre più acuta di problemi drammatici per l'avvenire stesso dell'umanità. Tutti elementi che modificano le abitudini di vita, che incidono nelle vecchie concezioni dell'uomo, della famiglia, della società, sulle sorti e sul futuro del mondo. Un sommovimento in cui accanto ai fatti positivi si registrano angosce e smarrimenti, un clima di incertezza su cui tenta di far leva la forza reazionaria — la destra fascista — sollecitando nostalgie, e invocando il ristabilirsi di un vecchio "ordine sociale"». Per il Pci sanare la crisi di valori ideali e morali, significa costruire un ordine civile e democratico che superi l'assurdo disordine prodotto dallo sviluppo capitalistico e da venticinque anni di governi conservatori. Diventa, dunque, prioritario dare al paese una diversa dirczione, adeguata alle lotte e a quel bisogno di cambiamento che non ha trovato una corrispondente soddisfazione. Non ha vinto il disegno della divisione. Anzi, fallita l'unificazione socialdemocratica, nuove possibilità si aprono nei rapporti fra partito comunista e socialista, appaiono rafforzati i rapporti col Psiup. Si può lavorare ad una nuova intesa fra le forze di sinistra, come asse fondamentale per un più generale impegno per le riforme e nella lotta contro il rischio di rigurgiti di destra. Per la prima volta dopo decenni si stanno verificando condizioni che costringono la Dc a confrontarsi con uno schieramento a sinistra, non ipotecato da vecchie logiche «frontiste» ma esteso a tutte le forze che vogliono «far avanzare una alternativa di governo, basata sulla collaborazione delle correnti popolari, democratiche, antifasciste». Partendo da queste premesse e nella consapevolezza che le conquiste di progresso, di democrazia nel paese non possono andare avanti senza 1'«apporto autonomo delle varie componenti politico-ideali della società italiana, quella socialista e cattolica», condizione decisiva per il Pci è lo sviluppo dell'unità senza offuscare la propria identità ma al contrario esaltando la sua insostituibile funzione nella lotta per il socialismo. Gli effetti della strategia della tensione si fanno sentire nel risultato elettorale del 7 maggio, mentre appare evidente il disegno democristiano di utilizzare la teoria degli opposti estremismi sullo sfondo inquietante delle trame eversive e del terrorismo. Le sinistre perdono seggi, la De è stabile, mentre a destra si registra un aumento del Msi. La prova elettorale del Manifesto e del Partito comunista marxista-leninista è un completo fallimento: le due liste ottengono come unico risultato la dispersione dei voti a sinistra, aggravata dal crollo elettorale del Psiup e dal risultato negativo del Movimento politico dei lavoratori. La candidatura di Pietro Valpreda non è bastata a risolvere i contrasti interni al Manifesto, dissensi che hanno portato alle dimissioni dal direttivo nazionale del leader fondatore del gruppo Aldo Natoli, né a costruire attorno alla scelta elettorale il consenso delle altre formazioni extraparlamentari, fatta eccezione per qualche modesto segnale di attenzione da parte di Lotta continua. Cade nel vuoto la parola d'ordine del «voto rosso» come pronunciamento contro la società e lo Stato borghese, come impegno a costruire uno schieramento di lotta rivoluzionario. Il risultato negativo acutizza le polemiche interne e rende ancora più estesa la critica al Manifesto di strumentalizzazione e separazione dal movimento.
La costituzione del governo Andreotti-Malagodi, composto da Dc e Pli con l'appoggio di socialdemocratici e repubblicani e con il voto determinante del Movimento sociale, sancisce lo spostamento a destra della situazione politica.
G. Viale, «II sessantotto, tra rivoluzione e restaurazione», cit., p. 238.
Brigate rosse, settembre 1971.
G. Galli, «La crisi italiana e la destra intemazionale», Mondadori, 1974, p. 39.
G. De Lutiis, «Storia dei servizi segreti in Italia», Editori Riuniti, 1984, p. 193.
«Potere operaio del lunedì», 26 marzo 1972.
«Lotta continua», 23 aprile 1972.
«Lotta continua», 23 aprile 1972.
E. Berlinguer, La «questione comunista», cit., pp. 404-432.
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8 .Contro il governo Andreotti-Malagodi
Dopo le elezioni si registra un riassestamento nell'area dell'estrema sinistra. Si conclude l'esperienza del Psiup, un partito che pur assolvendo un'innegabile funzione nel panorama della sinistra non ha trovato una sua identità. La maggioranza dei socialproletari confluisce nel Pci. La scelta non è condivisa dagli appartenenti all'area di Miniati e Foa: inizia il percorso che porterà alla formazione del Partito di unità proletaria. Sul Manifesto grava il peso della sconfitta elettorale. Ai contrasti interni si aggiunge la polemica degli altri gruppi: appare ormai irreversibile la rottura operatasi già in occasione dell'11 marzo. Consapevole dei rischi di avventurismo che attanagliano le altre formazioni, il Manifesto accompagna l'autocritica all'ansiosa ricerca di un proprio ruolo politico. Tuttavia permane l'illusione di poter unire in un medesimo progetto le forze della sinistra rivoluzionaria. L'uno dopo l'altro i vari comitati politici, sorti unitariamente con Potere operaio, vanno verso l'autoscioglimento nell'Autonomia. Contemporaneamente si accelera la rincorsa verso l'organizzazione della lotta armata. La cultura dell'estremismo, per effetto delle sue stesse contraddizioni, origina percorsi diametralmente opposti. I tentativi di definirsi in partito, al di là delle reiterate proclamazioni, entrano progressivamente in crisi, cozzando con la magmaticità del movimento postsessantottesco. Per il Manifesto, dopo la definitiva liquidazione dei comitati politici, si avvia il processo di unificazione con il gruppo ex Psiup che ha rifiutato la confluenza nel Pci. Sarà un rapporto diffìcile: i congressi di scioglimento delle due organizzazioni non risolveranno le differenze di storia e di formazione politica e il nuovo Pdup sarà la terra di confine di varie culture non mediate da una comune strategia. Avanguardia operaia, attraverso un infittirsi di iniziative, cerca il partito: approderà attorno al 1975 a Democrazia proletaria, il cartello elettorale costituito per le elezioni amministrative insieme al Manifesto, che si farà autonomo gruppo nella seconda metà degli anni settanta. Lotta continua procede per fasi alterne, oscillando fra partito e movimento, fra dimensione politica e autonomismo. Dopo i foschi avvenimenti del marzo 1972, la morte di Feltrinelli e l'uccisione del commissario Calabresi, è in sintonia dialettica con Potere operaio sui temi della lotta armata. Solo con il sequestro Mincuzzi del 1973 denuncerà l'avventurismo delle Br, tuttavia non sarà un netto distacco dalla lotta armata. Il suo farsi partito incontra non poche resistenze interne: si succedono le fughe, anche se il suo trasformismo consente un certo recupero della sua presenza organizzata. Più di altre formazioni entra in risonanza con le campagne sui diritti civili, e all'insegna del «governo delle sinistre» arriverà spregiudicatamente a sostenere il voto al Pci nelle elezioni amministrative del 15 giugno 1975. Netto il destino di Potere operaio. Il «partito dell'insurrezione» sceglierà l'autoscioglimento per ridefinirsi nell'Autonomia operaia insieme al Gruppo Gramsci e ai vari spezzoni delle Assemblee autonome. Tale rimescolamento della geografia politica dell'estremismo non è separabile dal ciclo politico che contrassegna il periodo compreso fra il voto del 7 maggio 1972 e i terremoti elettorali del 1975 e 1976 e dalle caratteristiche che assume il dibattito sulla lotta armata mentre si profila in termini inediti la «questione comunista» e le organizzazioni sindacali sono messe a dura prova da un padronato che punta con decisione ad attaccare le conquiste dell'autunno caldo. E in questo contesto che vanno collocate le azioni «esemplari» delle Br e la loro ripercussione nella vicenda dell'estremismo. Dopo Feltrinelli non è più un mistero che alcuni militanti della «sinistra rivoluzionaria» hanno scelto e praticano la lotta armata. Appare chiaro che gli scontri di piazza non sono frutto di spontaneità ma sono sapientemente programmati da una regia militarista. Potere operaio diffonde i materiali delle Br e si fa propagandista dei comunicati che scandiscono le loro azioni armate. Il Manifesto e Avanguardia operaia prendono le distanze ma si limitano ad accusare generici complotti e trame piuttosto che comprendere e contrastare la lotta armata che sta lavorando dentro la crisi dell'estremismo e sfrutta la sua incapacità a farsi interprete delle tensioni più fertili che lo avevano originato e a dare ad esse una prospettiva politica. Dentro Potere operaio la discussione sulla lotta armata procede a ritmi serrati. Di fatto già opera su un doppio livello, quello legale e quello illegale. Sin dal congresso del settembre 1971, considera invecchiati slogan come «guerriglia urbana» e «guerriglia di fabbrica», ormai quello che interessa Potere operaio è «organizzare e armare le masse». Per il gruppo di Negri, Piperno e Scalzone, anche se diviso sul tema dell'organizzazione, una cosa è chiarissima: «il problema della militarizzazione è completamente subordinato allo sviluppo delle lotte di massa». Nell'estate 1972 lo squadrismo fascista riprende l'offensiva. Risponde l'«antifascismo militante». Continua la repressione dello Stato contro i lavoratori. Le dinamiche delle strategie della tensione alimentano il sovversivismo di sinistra e contemporaneamente lo rendono sempre più complementare al terrorismo. Il 25 novembre, a Torino, una manifestazione si conclude con duri scontri con la polizia, arresti e fermi. Il giorno dopo le Br per dare quella che viene definita un'«esemplare punizione», incendiano nove auto di altrettanti «guardiani della Fiat». L'azione terroristica ha bisogno di seguire l'andamento delle lotte per esprimere con maggior forza la sua scelta di trasformare il conflitto sociale in guerra militare, per estendere il consenso attorno al partito armato. Alla fine di novembre, il governo Andreotti approva il disegno di legge sul fermo di polizia: un altro atto che sembra sancire il disegno complessivo dello Stato di criminalizzare indistintamente le avanguardie rivoluzionarie. Si conclude la lotta contrattuale. Per «l' Unità» e «II manifesto» è una «grande vittoria»; per «Lotta continua» è la «firma della resa». Da parte sua il partito armato non perde l'occasione per inserirsi nella contraddizione fra legalità e eversione dell'estremismo. Dopo la firma del verbale d'intesa fra Fiat e Flm, le Br bruciano sei macchine di sindacalisti gialli. Di lì a poco, in febbraio il sequestro e la «gogna» del segretario provinciale della Cisnal Bruno Labate. L'episodio non suscita reazioni da parte degli operai e del sindacato, anzi passa inosservato nel clima post-contrattuale. Occorrerà arrivare al 1976, dopo il tentativo di aggressione a Bruno Trentin da parte di gruppi dell'Autonomia e dopo un nutrito numero di attentati e incendi, per avere una piena mobilitazione operaia e la consapevolezza del ruolo del terrorismo rosso. Sfruttando il malcontento operaio, ali'ombra delle parole d'ordine dei gruppi estremisti e lavorando sulle loro contraddizioni, i primi nuclei terroristi operano dentro le fabbriche. Alla Fiat sono presenti Antonio Savino, Antonio Basone, Cristoforo Piancone. Mario Moretti lascia la Sit-Siemens alla fine del 1971 ma si dimetterà solo nel 1974. Incendi, attentati e sequestri si susseguono, eppure le Br non vengono isolate dall'estremismo, che anzi è coinvolto dal dibattito sulla natura della lotta armata, né dal sindacato, che reagisce ancora debolmente. Quello che sfugge è la natura del terrorismo rosso, non si comprende la sua matrice eppure si è consapevoli del crescere delle violenze, anche di quelle di fabbrica da parte di gruppi più oltranzisti. Questa prima fase dello sviluppo della lotta armata si liquida come «provocazione» di marca fascista. «Sedicenti Brigate rosse» è l'espressione che ricorre nella stampa di sinistra e nei commenti sindacali. Non si tratta solo di una sottovalutazione, ma anche della conseguenza dell'asprezza del quadro politico e dell'offensiva padronale. Secondo varie fonti, nel 1973 la Fiat attraverso il Msi assume duemila lavoratori: ingrosseranno le fila della Cisnal. La controffensiva padronale è durissima: denunce, licenziamenti, interventi della polizia. Prosegue indisturbata l'azione dello suqadrismo fascista: il Msi è entrato nel gioco politico, in più occasioni sostiene apertamente il governo Andreotti. Insieme alle componenti più integraliste del mondo cattolico e della Dc si fa propugnatore dell'iniziativa per la richiesta di referendum per abrogare la legge sul divorzio. Per il Pci è un grande momento di recupero dell'iniziativa di massa: occorre liquidare quanto prima il governo Andreotti-Malagodi, costruire nuove condizioni politiche, reagire alle minacce eversive, per lo più identificate nella matrice fascista, con un «sussulto democratico». In questo contesto matura quello che le Br definiscono l'attacco ai fascisti in camicia bianca «di Andreotti e della Democrazia cristiana». Il 15 gennaio 1973 un commando armato irrompe nella sede dell'Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti), incatenano il segretario e requisiscono gli archivi. Il volantino di rivendicazione fa esplicito riferimento alla situazione economica, alla repressione in fabbrica e nel paese: «I prezzi aumentano e la disoccupazione cresce sempre di più; in fabbrica la polizia attacca sempre più ferocemente i picchetti e scioglie con forza le assemblee operaie; con il "fermo di polizia" gli arresti indiscriminati vogliono impedirci qualunque forma di organizzazione e resistenza». Tutto questo «mentre i fascisti assassini di Almirante godono della più assoluta impunità e gli viene addirittura permesso di riunirsi a congresso». Nel paese ancora manifestazioni di piazza. A Milano, il 24 gennaio, all'Università Bocconi, nel corso di violenti scontri fra gruppi e polizia, trova la morte lo studente Franceschi. Ovunque manifestazioni di protesta. A Torino il bilancio è molto pesante. Il rettore della Bocconi dichiara la serrata. La destra si scatena: il 30 dello stesso mese riprendono le agitazioni a Reggio Calabria, vengono fatte esplodere numerose bombe, al Nord vengono assaltate varie sedi dei partiti democratici. La sinistra, stavolta unita, è impegnata contro il fermo di polizia e nel denunciare all'opinione pubblica la pista nera della strage di piazza Fontana. Il rapporto del questore di Milano, Allitto, sulla sinistra extraparlamentare: denuncia la presenza nella sola Milano di dodicimila militanti pronti a mettere a soqquadro la città e a innescare la guerriglia urbana. Ancora una volta si sceglie la strada più semplice: mettere tutto nel mucchio, criminalizzare tutto il movimento senza distinguere, e ciò lo spinge a un cieco sovversivismo, facilita i gruppi più oltranzisti e favorisce il reclutamento del partito armato. Si infittiscono gli scontri fra opposti estremismi. Nel mese di febbraio: incidenti a Napoli e in tutte le principali città; è incendiata l'abitazione del magistrato romano Paolino Dell'Anno; alcuni attentati hanno come obiettivi caserme e commissariati. Si moltiplicano gli assalti dell'antifascismo militante alle sedi del Fronte della gioventù. Il 15 aprile un torbido e atroce attentato: viene incendiata la casa del segretario della sezione del Msi del quartiere romano di Primavalle e trovano la morte i suoi due figli. La stampa si divide sulla matrice dell'attentato. Alla grande opinione pubblica vengono indicati come autori ex militanti di Potere operaio. A un mese di distanza, il 17 maggio, a Milano, un sedicente «anarchico» Gianfranco Bertoli getta una bomba sulla porta della Questura dove, qualche minuto prima, era stato inaugurato un busto alla memoria del commissario Calabresi. Tre agenti e una donna perdono la vita, numerosi feriti tra i passanti. Ancora polemiche sulla natura dell'attentato e sulla pista da seguire. Vengono avanzate le prime supposizioni sulle piste internazionali del terrorismo, peraltro già emerse nelle varie inchieste sul terrorismo nero. Nel giugno la definitiva crisi del governo Andreotti: si avviano le trattative per il centro-sinistra che sosterrà il nuovo governo presieduto da Rumor; Cronometrico nell'intreccio con il ciclo politico, giunge il sequestro del dirigente dell'Alfa Romeo Michele Mincuzzi, ad opera delle Br. Commentando l'episodio, 1'«Avanti!» introduce un elemento nuovo rispetto alle precedenti analisi: «Esistono [...] estremisti di sinistra, nei cui confronti c'è da parte dei socialisti il più chiaro dissenso, ma anche la volontà di difenderli da ogni repressione indiscriminata purché agiscano nell'ambito delle libertà politiche garantite dalla Costituzione [...] l'etichetta di sinistra non sarebbe invece da accettare per chi avesse fatto della violenza e del delitto il suo strumento di lotta» . Per «l'Unità» le Br sono «una banditesca organizzazione il cui scopo è solo alimentare la strategia della tensione» . Dello stesso tono il giudizio della Federazione Cgil, Cisl, Uil. Il sequestro Mincuzzi divide Potere operaio e Lotta continua. Sui rispettivi giornali uno scambio di accuse. Per Potere operaio le Br tentano di dare una risposta «in termini di attacco» alle lotte operaie, mentre Lotta continua, sia pure con molte ambiguità, coglie i rischi dell'azione terroristica. Durissima la polemica di Potere operaio con i «dottorini» del Manifesto. Le Br, consapevoli del dibattito in corso nelle formazioni dell'estremismo, nel loro secondo documento teorico, polemizzando contro chi pensa alla sola azione armata per «mettere in movimento la classe operaia» e contro chi attribuisce a un «gruppo di samurai l'attenzione ed i compiti della lotta armata», avevano scritto: «Si tratta dunque di fare un passo in avanti ed imporre nella lotta la linea di costruzione del potere proletario armato contro le tendenze militariste o comunque errate» . Il 1973 si chiude con l'autoscioglimento di Potere operaio, la centralizzazione dei vari gruppi dell'Autonomia e con il delinearsi di nuovi scenari politici. I drammatici avvenimenti cileni del settembre offrono l'occasione per un'ulteriore riflessione del Pci: Berlinguer lancia la proposta di un grande compromesso storico fra le forze democratiche. Per l'estremismo, invece, la fine di Unidad popular è la conferma dell'impossibilità di una pacifica transizione rivoluzionaria. Intanto sul fronte del terrorismo rosso, con il nuovo sequestro di Ettore Amerio capo del personale della Fiat (10 dicembre), si conclude un ciclo della sua storia. A novembre è iniziata la complessa trattativa per il rinnovo contrattuale. Gli incontri tra Agnelli e i massimi vertici sindacali non danno risultati, sul tavolo della trattativa pesa la minaccia della cassa integrazione. Debole la risposta operaia. A venti giorni dall'inizio della vertenza giunge il sequestro. Sin dal primo comunicato sono chiari gli obiettivi delle Br: dalla crisi di regime non si esce con un «compromesso», al contrario occorre approfondirla non concedendo alcuna tregua alla borghesia. Rivolgendosi alla sinistra rivoluzionaria si indica il bivio davanti a cui si trova: «Compromesso storico o potere proletario armato; questa è la scelta perché le vie di mezzo sono state bruciate». Nei giorni del sequestro alla sequela dei comunicati si alternano le azioni di propaganda davanti alle fabbriche, mentre il sindacato e le forze di sinistra denunciano i rischi di provocazione e lo Stato si dimostra inerme di fronte all'offensiva del terrorismo. La stampa si interroga sulle matrici delle Br; «Avanguardia operaia» scrive di un accordo tra Br, servizi segreti e lo stesso Amerio, «II manifesto» preferisce il silenzio. Diversa la reazione di «Lotta continua»: certo le Br esprimono una deviazione «militarista-piccolo borghese» ma non si può ignorare il problema «vivo e serio» della «violenza proletaria» che esse pongono. Dopo otto giorni di sequestro e dopo il ritiro della minaccia di cassa integrazione da parte di Agnelli, le Br rilasciano Amerio. Per il partito armato ormai l'obiettivo sarà «colpire il cuore dello Stato».
«Avanti!», 30 giugno 1973.
«l' Unità», 30 giugno 1973.
Soccorso rosso, «Brigate rosse - Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto», Feltrinelli, 1976, p. 146.
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9. La “questione comunista”
Il superamento del governo Andreotti non comporta una stabilizzazione della situazione politica, dalla sua caduta allo scioglimento anticipato delle camere del 1976 si succedono altri quattro governi. Mentre imperversa la crisi economica, sono i mesi della crisi energetica e i partiti di governo sono sconvolti dagli scandali, sulla scena politica interviene prepotentemente la vicenda del referendum. Intanto lo scontro fra l'area «illegale», Miceli, e l'area «legale», Maletti, del Sid non si è ancora conclusa. Occorrerà superare la battaglia referendaria, il sequestro Sossi, la strage di Brescia, l'uccisione di due militanti del Msi-destra nazionale a Padova, l'attentato al treno Italicus per arrivare nel settembre '74 alla sospensione dall'incarico del generale Miceli e alla sua sostituzione. Seguirà poi l'arresto e le incriminazioni. Nel comunicato diffuso al momento del rilascio di Amerio le Br insistono sul concetto di crisi di regime: «Siamo nella fase di apertura di una profonda crisi di regime che soprattutto è crisi politica dello stato e che tira verso una rottura istituzionale verso un mutamento in senso reazionario dell'intero quadro politico» . Linea golpista e «riforma costituzionale» in senso autoritario, per le Br sono due versioni dello stesso disegno e centro motore di entrambe è la Dc. Commentando la scadenza referendaria i brigatisti scrivono: «E chiaro che se la Dc dovesse vincere il referendum in testa alle forze monopoliste, il progetto di "riforma costituzionale" riceverebbe un enorme slancio e diventerebbe immediatamente piattaforma di ordine "democratico" sulla quale "restaurare" lo Stato e ristabilire il dominio integrale della borghesia» . All'inizio del '74 oscuri episodi riportano l'attenzione sui rischi del colpo di stato, manovre militari sono circondate da misteriose rivelazioni e frettolose smentite. Un trafiletto de «l'Unità», titola «voci di stato d'allarme nelle caserme». A marzo col rientro di Andreotti al ministero della Difesa iniziano le tappe conclusive della resa dei conti Maletti-Miceli. Alla ricomposizione del quadro politico corrisponde una ridefinizione delle strategie dei vari partiti dell'eversione. Un punto alto di questa conversione saranno le progressive trasformazioni della P2 di Licio Gelli. Il partito occulto raffina le sue tecniche di occupazione dello Stato e attorno al «piano di rinascita nazionale» consolida un complesso sistema eversivo in chiave anticomunista avvalendosi di protezioni interne ed internazionali. Le molte deviazioni, i tanti gradi di «clandestinizzazione» della politica, del mondo finanziario, della magistratura, dei servizi segreti, della criminalità si fanno «partito» convergendo su un medesimo obiettivo. Nella seconda metà degli anni settanta, quando la «questione comunista» domina la scena politica italiana, le tante strutture parallele e le strategie dell'eversione che hanno segnato la storia nazionale a partire dalla fine degli anni sessanta sembrano riunificarsi fra loro predisponendosi ad un nuovo ciclo dell offensiva reazionaria . Tra il 1974 e il 1975 la violenza politica cambia qualità e segno. Se tra l'inizio del 1970 e il 1974 le stragi e il maggior numero di attentati alle cose e alle persone, alle sedi dei partiti democratici portano il marchio dello squadrismo di destra, a partire dall'assassinio dei due militanti missini a Padova questo tragico primato passa al sovversivismo e al terrorismo rosso. Tra il 1969 e il 1974 le azioni di violenza nera sono in totale 2.004. L'apice è raggiunto nel 1971 con 460 azioni contro le 17 attuate nello stesso anno da estremisti di sinistra. Gli attentati rivendicati dalle organizzazioni terroristiche di destra arrivano alla punta massima di 43 nel 1974; decrescono tra il 1975-1976; mentre registrano un'ulteriore incremento dal 1977 in poi. I terroristi di sinistra rivendicano: un attentato nel 1969; 4 nel 1970; 6 nel 1971; 31 nel 1972; 11 nel 1973; 32 nel 1974; 48 nel 1975. Successivamente si registra una brusca impennata fino al 1979 che vede la punta massima di 659 attentati rivendicati, di cui 66 dalle Br. Nel 1974, dunque, gli attentati rivendicati dalla destra e dal terrorismo di sinistra sono rispettivamente 43 e 32; quelli effettivamente compiuti rispettivamente 211 e 49, le violenze 393 contro 65. I segni della mutazione in atto si vedono già nel 1975, gli attentati rivendicati passano da 48 per le organizzazioni «rosse» e a 14 per quelle «nere»; gli attentati compiuti 76 e 117; le violenze 44 e 154. Nel 1976 la situazione si rovescia: il terrorismo rosso sigla 106 azioni, quello nero 10, gli attentati effettivamente compiuti sono rispettivamente 157 e 149, le violenze 63 e 110. La battaglia sul referendum segna un decisivo spartiacque nella molto confusa vicenda politica italiana. Paolo Bufalini della direzione del Pci con una felice espressione lo definirà «un diversivo». Mentre il dibattito ruota attorno alla proposta berlingueriana di un «nuovo grande compromesso storico» fra le componenti comuniste, socialiste e cattoliche sembra vanificare questa prospettiva l'uso dissennato che l'integralismo fa del referendum gestito come un'ultima spiaggia contro il rischio tanto temuto della legittimazione comunista. Insieme a Fanfani si schierano la destra e i settori più retrivi del moderatismo clericale. La linea del ragionamento scelta dal Pci, evita la trappola del muro contro muro, della battaglia ideologica e dello scontro preconcetto. Il 18 aprile del 1974, una data simbolica nella storia della De, lo stesso giorno in cui Agnelli si insedia alla presidenza della Confìndustria, un commando delle Br sequestra il magistrato genovese Mario Sossi. Il terrorismo rosso supera l'ambito della fabbrica per aggredire lo Stato e «rendere evidente l'approfondimento delle contraddizioni all'interno e fra i vari organi dell'apparato statale». Sossi si è fatto notare per l'accanimento e lo zelo nel colpire l'estrema sinistra. Nel 1972 aveva fatto arrestare l'ex partigiano Lazagna e, suscitando molto scalpore, Vittorio Togliatti, figlio dello scomparso leader comunista. Più di recente era stato il principale protagonista del processo contro il gruppo 22 Ottobre di Genova. Inizia il tragico rituale dei comunicati e della gestione politica del sequestro e due poteri occulti sembrano dialogare fra loro in un intrico di messaggi cifrati, nell'alternarsi di minacce, di colpi di scena, durezze e concessioni. Si manifestano le prime crepe dello Stato sul fronte della trattativa. Il processo al gruppo 22 Ottobre diventa lo schermo di un illusorio terreno di scambio, per le Br l'obiettivo è un altro: conquistare legittimità politica per il partito armato. Il 12 maggio 1974, contro l'integralismo della Dc, la «vittoria della ragione»: i «No» ottengono oltre il 59 per cento. Nel paese si apre una nuova stagione democratica. E anche in Europa spira un vento diverso: in Portogallo cade il regime fascista, di lì a pochi mesi crolla la dittatura dei colonnelli in Grecia. Poi, ancora un colpo alla linea Fanfani: la sconfitta della Dc alle elezioni regionali in Sardegna. Per Avanguardia operaia e per il Pdup-Manifesto è l'inizio del crollo democristiano: diventa sempre più credibile l'ipotesi del governo delle sinistre. Per Lotta continua si sta per arrivare all'inevitabile resa dei conti col revisionismo, occorre costruire l'opposizione antagonista al sistema. Perché ciò si realizzi senza equivoci è necessario il passaggio del Pci al governo: linea che porterà il gruppo all'opportunistico voto al Pci alle elezioni regionali dell'anno successivo. Alla vittoria referendaria replicano le molte strategie della tensione. A Brescia, dopo numerosi episodi di squadrismo fascista, il 28 maggio ci sarà la strage di piazza della Loggia. Un mese dopo, a Padova, per la prima volta nella loro storia, le Br usano le armi uccidendo due militanti del Msi. Nello stesso periodo la resa dei conti ai vertici del Sid: Andreotti parla di deviazioni dei servizi segreti e di ingerenze straniere. Si susseguono rivelazioni «bomba». Varie riviste anticipano i contenuti del dossier Maletti sui rapporti fra Miceli, Servizi e eversione nera. Proseguono i colpi di scena. Giannettini, implicato nella strage di piazza Fontana, si «consegna» alla magistratura; Maletti conclude la sua «ricostruzione» sui complotti di destra della Rosa dei venti e del previsto golpe borghese. Il 4 agosto il gravissimo attentato dinamitardo al treno Italicus ad opera del gruppo Ordine nuovo. Manovre e avventurismo contrassegnano la fase che precede le elezioni amministrative previste per il giugno '75, una tornata elettorale che interessa 15 consigli regionali a statuto ordinario e 86 capoluoghi di provincia. La Dc guidata dal senatore Fanfani è scossa dal risultato referendario, dalla sconfitta subita in Sardegna e dal test — parziale ma significativo — delle elezioni amministrative del 17 novembre '74, al suo interno numerose voci si levano per un ricambio ai vertici. L'integralismo democristiano tuttavia non demorde e usa tutte le armi di cui dispone per drammatizzare l'imminente prova elettorale. Rispolvera il vecchio armamentario delle paure, dei rischi; del comunismo come negazione della libertà; sfrutta la crescente psicosi del terrorismo caratterizzandolo sempre più come «rosso». Dopo l'azione di Padova si registra un periodo di parziale silenzio delle Br e nell'autunno i carabinieri del generale Dalla Chiesa assestano alcuni duri colpi all'organizzazione terroristica. In settembre, a Pinerolo, il primo arresto di Renato Curcio e del suo braccio destro Franceschini. Di lì a poco, sulla base di alcune rivelazioni dell'infiltrato e misterioso frate Girotto, viene arrestato Giambattista Lazagna ex comandante partigiano. Lo scontro con il terrorismo rosso si militarizza. A Robbiano di Mendiglia, in un conflitto a fuoco, è ferito il brigatista Roberto Ognibene e resta ucciso il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano. In ottobre, nel corso di una rapina a Firenze, rimangono uccisi Luca Mantini e Giuseppe Romeo. Sono due giovanissimi e la loro storia è simile a tanti altri giovani finiti nella ragnatela del terrorismo: sono passati per Lotta continua, ne sono usciti da sinistra, sono rimasti intrappolati nella lotta armata, sono morti in un «esproprio proletario», convinti che una rapina sia un gesto rivoluzionario. Le Br si fanno aggressive e tracotanti. L'azione spettacolare, sarà la liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Guida il commando la sua compagna, Mara Cagol, che troverà la morte in giugno, durante una battuta dei carabinieri in seguito al fallito sequestro dell'industriale Gancia. Renato Curcio è presentato dalla stampa come un «eroe», molti settimanali gli dedicano la copertina, numerose le interviste e i pezzi di colore. La stampa e i mass media divengono uno strumento non secondario dello spettacolo del terrore. Nei primi giorni di ottobre spetta ai socialdemocratici aprire la nuova crisi, una vera e propria intimidazione antisocialista. Ai calcoli democristiani si intrecciano le interferenze americane: John Volpe, ambasciatore a Roma, non esita a dichiarare che sarebbe auspicabile una nuova consultazione elettorale. Cade il governo Rumor: la situazione del paese si presenta alle soglie dell'ingovernabilità, dopo un lungo balletto di tentativi solo il 29 ottobre viene affidato l'incarico a Moro. Il Pci si batte per evitare un nuovo scioglimento anticipato delle Camere, vuole accreditarsi come grande forza a difesa del quadro democratico e della sovranità nazionale, capace di realizzare una svolta negli indirizzi economici e imporre una moralizzazione nella vita pubblica, ne deriva la sua netta opposizione ad ogni rischio di pericolosi vuoti di potere. Nel novembre è arrestato l'ex capo del Sid, generale Vito Miceli, eletto successivamente nelle liste del Msi, accusato per cospirazione contro la Repubblica, l'arresto si inserisce nell'inchiesta per la «Rosa dei venti», il tentato golpe Borghese e le trame eversive di destra, numerosi personaggi democristiani sono chiamati in causa come correi. Al suo XIV congresso (Milano, 2-4 novembre) il partito radicale rilancia la battaglia sui diritti civili, mentre Pannella uscito temporaneamente dal partito annuncia la costituzione della Lega 12 maggio, «movimento socialista per i diritti e le libertà civili» con l'obiettivo di rilanciare la campagna per gli otto referendum. Il sindacato sotto la spinta di base rompe la trattativa sulla contingenza. All'inizio di novembre oscure manovre e allarmismi, sulla stampa sempre più intense si fanno le notizie di un possibile attacco contro il sistema democratico. Spetta ad Armando Cossutta scrivere su «Rinascita»: «Contro il verificarsi, comunque di eventuali e possibili situazioni di emergenza, di colpi di mano contro il regime democratico, la nostra linea è altrettanto chiara. Ogni comunista sa ciò che deve fare in simili circostanze [...]. Milioni e milioni di lavoratori democratici, di antifascisti, di giovani saprebbero scendere nelle piazze e nelle strade, combattendo con tutti i mezzi necessari per difendere la libertà e per vincere. Tutto questo sanno i comunisti che senza attendere ovviamente ne ordini scritti ne telefonate farebbero il loro dovere fino in fondo, unendosi ai socialisti, ai democratici, agli antifascisti, agli uomini e alle forze della Dc che hanno a cuore il regime democratico e costituzionale, a tutti coloro che amano l'Italia e la Repubblica . Dopo oltre due mesi di crisi spetta a Moro far uscire la situazione dallo stallo, si forma il governo Moro-La Malfa con l'appoggio esterno dei socialdemocratici e dei socialisti, sarà l'ultimo governo presieduto dal leader democristiano; il governo che porterà alle elezioni anticipate del 20 giugno '76 e sanzionerà il fallimento definitivo del riformismo socialista avviatosi alle soglie degli anni sessanta. Continua indisturbato lo squadrismo fascista. A Roma, culmine della violenza nera è l'agguato al militante di Avanguardia operaia Giannicolò Macchi, gli aggressori gli sfondano le tempie con spranghe di ferro, il giovane dovrà essere sottoposto a intervento chirurgico per rimuovere le schegge penetrate nel cervello. Il Pci avvia il suo XIV congresso nazionale: al centro la questione comunista. Anche se in modo non esplicito sembra voler aprire un dialogo con i settori più ragionevoli del gruppismo. Commentando il 1° congresso nazionale di Lotta continua, che si svolge nel gennaio '75, «Rinascita» sottolinea: «la piccola svolta» e valorizza i timidi passi in avanti compiuti dal gruppo di Sofri a conferma di un suo avvicinamento alla «politica». Analoga attenzione la rivista del Pci aveva già dedicato al congresso di Avanguardia operaia. Registrando un passo in avanti dell'organizzazione considerata nel solco culturale dei «marxisti-leninisti» per il suo dogmatismo ideologico e lo schematismo politico, scrive: «II fatto nuovo però che si è registrato nel congresso è stato uno sforzo di confronto con i problemi della lotta politica e sociale, sia pur sempre, negli interventi dei dirigenti, filtrati attraverso l'ideologia e annegati in lunghi confronti storici o citazioni culturali. Gli interventi dei delegati hanno rilevato più concretezza, ma hanno fatto emergere con maggiore evidenza il piatto economicismo che caratterizza, alla fin fine, la proposta politica di Avanguardia operaia» . Intanto nel paese all'aumento dei prezzi la risposta dell'estremismo è la campagna delle autoriduzioni. Il tema della disobbedienza civile entra nel dibattito di un movimento sindacale che deve fronteggiare «una base» sempre più critica e la proliferazione di forme di lotta sempre più incisive. Drammatico si presenta il problema della disoccupazione giovanile e in diverse categorie avanzano pericolose esperienze di sindacalismo autonomo. A fronte di altri passi in avanti nello sviluppo della democrazia, le elezioni scolastiche, oltre venti milioni di studenti, genitori e insegnanti chiamati alle urne, e il voto ai diciottenni, il sindacato stenta ad adeguarsi alla nuova fase. Il comitato centrale del Psi riunitosi dall'8 al 10 aprile in vista delle elezioni amministrative mette a punto la sua strategia elettorale. Tutte le correnti accentuano la critica alla Dc. Si va concludendo la fase demartiniana. Abbandonata, sin dal '69, una concezione palingenetica del centro-sinistra, come incontro storico fra socialisti e cattolici per attribuirsi in modo più realistico la funzione di pungolo nei confronti della Dc; il Psi attraversa una fase comatosa, in cerca di una linea e di una identità, al tempo stesso corroso da quelli che suoi autorevoli esponenti chiameranno «i mali del partito», le conseguenze della cogestione con il potere democristiano. Il 30 aprile '75 la vittoria del Vietnam. Il governo di Saigon si è arreso incondizionatamente al Grp dopo oltre 30 anni di guerre. Gli americani dopo un'occupazione di 20 anni lasciano il Vietnam e con loro 4.000 sudvietnamiti collaborazionisti. Con la vittoria del popolo vietnamita il mondo è più libero, scrive su «Rinascita» Enrico Berlinguer34. La Dc, nel tentativo di ipotecare il futuro dello schieramento politico, lancia la teoria della «reversibilità» delle alleanze, vuole ricattare il Psi e lasciarsi aperta la strada a nuovi centrismi. Mentre davanti alle Camere è in discussione il progetto Reale sull'ordine pubblico, il giudice Viola e altri magistrati portano avanti numerosi arresti e perquisizioni, al centro dell operazione la direzione nazionale di Avanguardia operaia nonché numerose sedi di Lotta continua. Sconfìtte le manovre dilatorie si va verso la campagna elettorale amministrativa. Pdup e Avanguardia operaia superano le reciproche diffidenze e stringono il patto elettorale nella formula di Democrazia proletaria. Lotta continua, come già aveva fatto intendere al suo congresso, fra lo sconcerto dell'estremismo e gli anatemi del Pdup-Manifesto, si dichiara, per il voto al Pci, un voto per accelerarne l'involuzione a destra. All'insegna del partito dalle mani pulite, dell'unità del paese, del buon governo, di una rafforzata autorevolezza conquistata in nuovi settori dell elettorato, il Pci consegue uno straordinario successo. Il 15 giugno, il primo dei grandi terremoti elettorali. Rispetto alle precedenti regionali il Pci avanza del 5,6%, il Psi dell' 1,6%. La lista di Dp conquista otto seggi nelle regioni dove si è presentata. Secca la sconfitta democristiana, a cui si aggiunge la forte contrazione dell'area socialdemocratica e liberale. Nelle regioni interessate dal voto muta radicalmente la distanza fra Dc e Pci: solo un 1,8% separa i due più grandi partiti. Nel bene e nel male la sindrome del sorpasso caratterizzerà la nuova fase. L'oltranzismo non ha vinto, non hanno avuto buon gioco gli strumentali allarmismi democristiani tesi ad evocare vecchie e nuove paure.
Comunicato del 18 dicembre 1973, pubblicato su «Controinformazione», n. 1/2, febbraio-marzo 1974.
Contro il neogollismo portare l'attacco al cuore dello Stato, pubblicato su «II Giornale d'Italia», 13 maggio 1974 e su «II Tempo» dello stesso giorno.
Ai fini del rapporto P2-strategie eversive cfr: G. De Lutiis, «Storia dei Servizi segreti in Italia», cit., in particolare I contributi dei privati alla politica dei Servizi — Licio Gelli, p. 179 e Dalla riforma del 1977 alla loggia P2, p. 261 e sgg.; Atti del convegno promosso dal Centro Riforma dello Stato ad Arezzo 26-27-28 novembre 1982, La vicenda della P2, Poteri occulti e stato democratico; G. Galli, «Per una storia del partito armato», inserto a «Panorama», novembre 1984.
«Rinascita», n. 45, 15 novembre 1974.
«Rinascita», n. 40, 11 ottobre 1974.
«Rinascita», n. 19, 9 maggio 1975.
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